Il nostro cinema non si merita questi attori depressi per forza

Dovesse vincere la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile com'è possibile e come gli auguriamo, chissà se, ritirando il premio, Elio Germano alzerà ancora il pugno chiuso come fece nel 2010 a Cannes e come ha fatto l'altro giorno sbarcando qui al Lido. Sarebbe la terza volta e magari ne è sfuggita qualcuna. Non che la cosa ci turbi, libertà e democrazia prima di tutto. Il rammarico è per la prevedibilità, una ritualità stanca che ormai si accompagna a tante manifestazioni d'arte e d'intelletto. «Sono un attore bravo, ma sono anche un attore impegnato e militante». Wow, non lo sapevamo... Alla Mostra di Venezia passano i film, alcuni dei quali interessanti, provocatori, semplicemente belli. Ciò che li corrompe e impoverisce sono certi tic e manie dei nostri attori e cineasti. Alla fine, gli (...)

(...) stranieri sono meno provinciali, piùumili e pragmatici. Noi no, ci atteggiamo a intellettuali e artisti tormentati. Dentro una sfilza di riti e cliché, a causa dei quali, lentamente ma inesorabilmente, il nostro cinema finisce per ridurre le sue ambizioni e i suoi confini. Si rattrappisce nel déjà vu. Prendiamo le attrici. Dopo le stagioni di Margherita Buy, Giovanna Mezzogiorno e Jasmine Trinca, da un paio d'anni è il momento magico di Alba Rohrwacher. Una produttività incessante, che la vede protagonista di tutti i film d'autore con risvolti patologici. I ruoli borderline, di disturbata, anoressica, fanatica se non proprio pazza (ma lei ha negato che la sua Mina, che in Hungry Hearts segrega in casa il figlio neonato imponendogli una dieta vegana, lo sia) sono tutti suoi. Almeno Isabella Ferrari, dopo un'intera filmografia da moglie insoddisfatta e turbata da ossessioni erotiche, diretta dal marito in La vita oscena si è ritagliata il ruolo di una madre malata di cancro che veste hippy... Proseguendo nella carrellata dei cliché, invece, oggi arriverà La trattativa di Sabina Guzzanti, viaggio documentario tra aule giudiziarie e letture giustizialiste con bava alla bocca. L'area di riferimento politica e geografica è la stessa di Belluscone . Una storia siciliana, altro documentario antiCav nel quale Franco Maresco ha scelto l'intonazione della farsa per dire che Berlusconi deve il suo impero ai soldi della mafia.

L'idea di disertare il Lido perché si ha «una certa confidenza con la depressione», facendo annullare la conferenza stampa, salvo poi parlare con pochi giornalisti fidati, ha qualcosa di geniale. Ma ricorda non troppo alla lontana le paranoie del Michele narcisista di Ecce Bombo , incerto se andare alla festa o no, o infine tenersi in disparte per farsi notare di più. Si sa, la figura dell'artista tormentato e depresso è un must della provincia cinematografica italica e non solo. L'altro giorno Al Pacino ce ne ha mostrato uno ispirandosi a un romanzo di Philip Roth. Ma richiesto se fosse depresso anche nella vita reale, ha tagliato corto: «Non lo sono o almeno non ne sono consapevole. Depressione è un termine sinistro, non mi piace usarlo». Poi ha aggiunto: «Sono fortunato a fare il mestiere che amo».

Invece di ricordarselo spesso anche loro, i nostri divi alzano il pugno chiuso, se la tirano da intellettuali, recitano ruoli tormentati, si atteggiano a Michael Moore de noantri. Tutto già visto, tutto tristemente noto. Diceva Charles Peguy che «è lo stupore ciò che conta prima di tutto». Brutta storia se proprio il cinema non riesce più a stupire.

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