Quella notte che gli telefonai fingendomi Sandro Pertini

Lo scherzo era cattivo, ma mi perdonò. Dicono che era grigio? Beh, era il grigiore dell'autorevolezza

Quella notte che gli telefonai fingendomi Sandro Pertini

Apparteneva davvero a un'altra generazione, un altro mondo e un altro modo di essere giornalista. I suoi documentari, approfondimenti, programmi non avevano un difetto: erano istituzionali in modo quasi sovietico, anche perché appartenevano a una televisione in cento tonalità di grigio e non c'era colore neanche nelle parole. Però, proprio per questo, oggi se vuoi sapere che cosa pensava e diceva Pietro Nenni leader dei socialisti, Giorgio Almirante leader dei missini, e tutti i cardinali, generali, giudici e opinionisti, dovevi e devi ancora mettere mano all'enorme biblioteca di Sergio Zavoli che con la scusa di accendere una fioca luce sulla «Notte della Repubblica», incendiò a giorno un'Italia non più povera ma poco fantasiosa, più vicina all'Italietta giolittiana che alle furie antiparlamentari degli ultimi anni, e tutto con un rispetto sacrale, laicamente religioso del Parlamento, della politica istituzionale, dei fatti più gravi e orrendi e irrisolti, tutti trattati con compostezza sapiente. Devo confessare di avere avuto sempre per Zavoli un rimorso. Ai tempi in cui da casa di Giovanni Minoli e con l'aiuto di insigni giornalisti, facevo satira politica dal vivo disfacendo governi e facendo andare in bestia gli uffici stampa, una notte telefonai proprio a lui che era diventato Presidente della Rai, usando la voce di Sandro Pertini, presidente della Repubblica. E lo mitragliai di frasi dissennate, pedanti, irrilevanti e pronunciate con tono presidenziale. Era notte fonda, ma nel giro di due ore l'Ansa, l'agenzia di notizie più importante, mise in onda uno speciale sulla magnifica telefonata che il Presidente della Repubblica aveva fatto al presidente della Rai, il quale concordava in tutto e per tutto sulle svagate sciocchezze che io gli avevo irrispettosamente propinato.

Ci ritrovammo in Senato, su fronti opposti, ma mi preoccupai di andare da lui a salutarlo e naturalmente mi ricordò il fattaccio e ne rise, sollevandomi da un grave imbarazzo. Lo dico per dire che malgrado l'apparente grigiore, Zavoli era anche un uomo di mondo ed apparteneva a una stirpe ormai estinta: quella dei socialisti laici e democratici, gente che sapeva culturalmente dare del tu a tutti avendo un passato e un presente specchiato, al massimo sospetto di una certa autorevole ma feconda noia. Il lavoro di storico nella televisione che compì Sergio Zavoli fu una vera fondazione della Storia repubblicana. La Rai era non soltanto una azienda ma una delle istituzioni collaterali dello Stato, un po' come era la Fiat dei Gianni Agnelli. La Rai era frutto del grande compromesso storico tra democristiani, comunisti e socialisti, più il fritto misto dei laici. Più tardi si aprirà a Lega, frange radicali e opportunisti di varia natura. Ma la televisione italiana di cui Sergio Zavoli fu giornalista e poi presidente. Somigliava molto più alla televisione svizzera che alla CNN. Dico della televisione svizzera perché ancora negli anni Novanta mi capitava di essere invitato a Lugano dove avevano mantenuto dei format impeccabilmente lunghi, solidi, grigi e attendibili come quelli della televisione di Zavoli. Ve la ricordate la Laurito, banda Arbore, che in Quelli della Notte si rivolgeva A stu' Zàvole? fingendo una leggera mancanza di rispetto per l'istituzione, cosa da brividi - allora - che già da sola faceva spettacolo? Era ancora l'epoca in cui si poteva far finta di essere rispettosamente irrispettosi. Entrò alla Rai un anno prima che Gino Bartali fosse costretto a vincere il Tour De France per sedare la guerra civile italiana seguita alle revolverate contro il segretario del Pci Palmiro Togliatti.

Zavoli fu prima di tutto un giornalista di ciclismo, quando il ciclismo era se possibile più popolare del calcio e il ciclismo era umile, eroico, richiedeva anche dai fan sacrificio e pioggia sulle curve e Zavoli cominciò così, da cronista e non è cosa da poco. Poi ce lo ricordiamo in tutti quelli speciali che formavano la parte forte, intelligente, della Rai ed erano quelle rubriche solide con TV7, AZ, lo stesso Tg1 che era un po' come la Pravda in Unione Sovietica, ma nel senso della sacralità. Era molto legato a Federico Fellini e ha chiesto di essere sepolto accanto al regista romagnolo. Era un uomo onnivoro, disciplinato e politico nel senso che imparava quel che succedeva e lo mostrava. Ma il vero miracolo che ha lasciato è la library, la quantità di interviste e documenti storici in cui tutti coloro che sono morti da decenni erano vivi e attuali e narrano quel che sanno in modo piano, perché Zavoli era un intervistatore fermo, ma non incalzante. Era ancora il giornalismo in cui l'intervistatore non proclamava le risposte in cui le domande erano domande con il punto interrogativo finale, cose oggi pressoché dimenticate. Persino il suo italiano era non fantasioso, ma austero, senza fronzoli, diretto e privo di trucchi di scena. È veramente facile scivolare nella retorica rendendo merito e onore al giornalista Zavoli, ma forse questa triste e necessaria eventualità può spingerci oltre, a chiederci: come è potuto accadere quel che è poi accaduto? Come è possibile che ogni vena di rispettabilità sia oggi esaurita? Sergio aveva scritto fra gli altri un bel libro sulla sua storia: Il ragazzo che io fui che, al di là dei pregi letterari e giornalistici, resta un certificato di esistenza in vita di un'Italia che nel suo snodo fondamentale dell'incontro fra eventi e comunicazione (non soltanto l'«informazione») che permette la condivisione da cui poi emerge la politica, le differenze, l'accapigliamento. È morto a 93 anni ed è stato un testimone vitale fino a poco fa, quando ancora ci incontravamo. Ma mi disse che non sapeva più di che cosa fosse testimone, benché comprendesse bene quel che succedeva, come accade del resto a noi tutti.

Giusto per finirla sull'Arcitaliano, ci sembra sensato accostare il solido modo di fare pesante giornalismo di Zavoli (ma sempre attendibile) con la speranza di Eduardo: dovremmo, o almeno lo speriamo, «passà a nuttata», cioè arrivare ancora vivi alla prossima alba.

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