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Novità al Pentagono, c'è un generale di colore. Famoso per il suo flop

Biden chiama Lloyd Austin. Spese 500 milioni per formare 5mila siriani, poi passati all'Isis

Novità al Pentagono, c'è un generale di colore. Famoso per il suo flop

Se le regole da rispettare erano quelle del «politicamente corretto» allora la scelta di Joe Biden è perfetta. Venerdì annunciando ufficialmente la scelta di Lloyd Austin come nuovo Segretario alla Difesa il presidente in pectore porterà a casa due piccioni con una fava. Da una parte passerà alla storia come il primo inquilino della Casa Bianca pronto a consegnare la Difesa ad un ex-generale a quattro stelle di pelle nera. Dall'altra sarà certo di aver messo a cuccia quell'esercito di «black lives matter» e «antifa» che negli ultimi mesi del mandato Trump ha messo a ferro e fuoco contee e città americane. Ma a far la differenza hanno sicuramente contribuito anche gli intensi ed eccellenti rapporti creatisi durante la presidenza Obama quando il capo della Casa Bianca delegava al numero due Biden gran parte dei rapporti con la poco amata categoria dei generali. Più difficile è dire se l'ex-responsabile del Central Command rappresenti anche la scelta più azzeccata.

A Washington nessuno ha dimenticato la fìguraccia del 2015 quando il generale confessò al Senato di aver perso le tracce di ben 4.995 dei 5mila cosiddetti «ribelli moderati» siriani addestrati e armati al costo di 500 milioni di dollari, ma passati, subito dopo, dalla parte di Al Qaida e dello Stato islamico. Le incognite della scelta di Lloyd Austin non si limitano all'opaco estro politico dell'ex generale. Una difficoltà ancor più grossa sarà far digerire al Congresso una nomina in palese contrasto con quel National Security Act del 1947 che proibisce la nomina di militari in congedo da meno di sette anni. In 73 anni gli unici ad aver ottenuto da Camera e Senato una deroga a quella legge sono stati il generale George Marshall, scelto da Harry Truman nel 1950, e il generale Jamis Mattis nominato Segretario alla Difesa per volere di Donald Trump nel 2016. Gli oltre 60 anni trascorsi tra la prima e la seconda deroga non sono casuali. In entrambi i casi deputati e senatori si sono subito pentiti di aver concesso la loro fiducia a dei generali propensi molto spesso a favorire gli ex colleghi decidendo non in base alle complesse regole della politica, ma a quelle assai più spicce della caserma.

E a rendere ancora più discutibile la nomina del generale s'aggiungono le ragioni che hanno spinto Biden a rinunciare a Michèle Flournoy, l'ex responsabile politica del Pentagono dell'era Obama considerata la candidata ideale fino a pochi giorni fa. A bloccare una nomina che avrebbe portato per la prima volta una donna alla guida del Pentagono, regalando a Biden la benedizione delle sacerdotesse del politicamente corretto, sono stati i rapporti troppo stretti tra la candidata e l'industria degli armamenti. Da quasi quattro anni la Flournoy è un ben retribuito membro del Consiglio d'Amministrazione di Booz Allen Hamilton, una multinazionale della cyber security che conta nei suoi ranghi un migliaio di ex funzionari dei servizi segreti americani ed è stata definita da Bloomberg «la più redditizia azienda di spionaggio del mondo».

Ma se queste referenze bastano a far venire i capelli dritti agli esponenti della sinistra del partito democratico, quelle del generale nero Lloyd Austin non appaiono assai più rassicuranti.

L'ex responsabile del Central Command ha accettato una carica analoga nel Consiglio d'Amministrazione della Raytheon, un'azienda di armamenti che - oltre ad essere tra i principali committenti del Pentagono - produce anche quelle bombe «intelligenti» finite sotto accusa dopo le tante stragi causate in Afghanistan, Siria, Irak e Yemen.

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