Sul piano emotivo, l'impatto della morte di Fidel è ancora grande: lo piangono non solo tutta quella sinistra sudamericana che per due generazioni ne aveva fatto l'icona della lotta contro gli Stati Uniti, ma anche i suoi molti ammiratori occidentali. Ma, sul piano politico, la sua scomparsa non conta più nulla, se non per segnare formalmente, sul calendario, la fine di un'epoca. Dopo avere lasciato dieci anni fa la presidenza della repubblica al fratello minore Raul, lo scorso 19 aprile, con il suo ultimo discorso al Congresso del partito comunista, aveva già preso congedo dai suoi connazionali e dal mondo. Forse presago della fine ormai vicina, aveva esortato con voce stanca ed arrocchita i compagni a portare avanti gli ideali del comunismo cubano, ma sapendo già che, dopo la ripresa (da lui fortemente osteggiata nelle segrete stanze) dei rapporti con gli Stati Uniti, difficilmente questo sarebbe stato possibile. Già durante gli ultimi anni della sua vita, aveva dovuto assistere a un cauto, ma graduale, abbandono dei suoi ideali, con la parziale liberalizzazione dell'economia, la rinuncia a una politica estera militante e l'allentamento della stretta su una opposizione sempre più agguerrita. Non ha mai criticato apertamente il fratello, ma si sapeva che non era contento.
Date queste premesse, poco o niente dovrebbe cambiare a Cuba dopo i suoi solenni funerali. Fino al 2018, quando finirà il suo mandato, Raul continuerà la politica di lenta apertura avviata all'inizio del decennio, ma senza mai allentare la presa sul potere. Ha già escluso la nascita di altri partiti politici e accusato gli Usa di usare l'iniziativa privata come cavallo di Troia per minare il regime. Quando sono stato a Cuba all'inizio dell'anno, ho riscontrato solo due cambiamenti rilevanti: la moltiplicazione delle piccole imprese private, nel campo della ristorazione, del commercio e dell'ospitalità, e una libertà di parole fino allora sconosciuta. Su una dozzina di persone che ho avuto occasione di avvicinare (sempre qualificandomi come giornalista), non ne ho trovata una che mi abbia parlato bene di Raul e dei vecchi rivoluzionari che ancora formano l'ossatura del governo. Si lamentavano dei salari ridicoli (un'infermiera professionista, tanto per fare un esempio, guadagna 35-40 dollari al mese) e della nascita di una nuova casta di ricchi che sfruttano a scapito dei poveri le aperture create dalle riforme. Era evidente che il riavvicinamento con l'America, peraltro non ancora accompagnato dall'abrogazione delle sanzioni, non aveva portato molti benefici all'uomo della strada. Molti pensavano di approfittare della maggiore libertà per andarsene, come avevano già fatto nell'ultimo mezzo secolo milioni di loro connazionali. Quelli che intendevano restare pensavano che non molto sarebbe cambiato finché Raul fosse rimasto alla guida del Paese e non fosse stato sostituito da un leader più giovane, che non vivesse più nel mito della «revolucion». Da allora ci sono stati alcuni progressi, come l'arrivo di capitali stranieri e l'apertura di un collegamento aereo con gli Usa. Ma gli stessi americani che hanno preso contatto con l'isola non hanno nascosto la loro insoddisfazione per l'evoluzione dei rapporti.
Ora, con l'arrivo di Trump alla Casa Bianca, i giochi potrebbero cambiare. Durante la campagna, il neopresidente non ha condannato la ripresa dei contatti con quella che rimane una dittatura comunista, ma ha assicurato che li romperà di nuovo se L'Avana non accetterà senza specificarle - le condizioni dell'America. Ma, visto quel che è successo negli ultimi giorni, non è affatto da escludere che faccia marcia indietro anche su questo.
Da uomo d'affari, non può non vedere che le liberalizzazioni, sia pure ancora più caute del previsto, finiranno con il favorire proficui rapporti commerciali con l'isola, e che, con la liquidazione del regime come traguardo finale, la situazione creata da Obama ha anche i suoi vantaggi. Con buona pace di Fidel, campione di una stagione ormai conclusa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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