G uido Rossa sta al colombaio 262 della Galleria Seconda Frontale. Riccardo Dura all'ossario 76 della Galleria Superiore Levante. Due indirizzi di questa immane, gotica, polverosa città di morti che è il cimitero genovese di Staglieno. Quarant'anni fa, si trovarono faccia a faccia in via Ischia. Rossa, l'operaio comunista che, da solo, aveva denunciato gli emissari brigatisti in fabbrica. E Dura, il proletario senza famiglia passato da Lotta continua alla colonna genovese delle Br, arrivato ad eseguire la condanna della «spia».
Sono passati quarant'anni, e venire qui, nel cimitero dove entrambi riposano, induce a pensieri amari. La tomba di Dura è in alto, illuminata dal sole del gennaio ligure, una lustra targa d'ottone dei «compagni di Pontedecimo» che indica il «comandante Roberto» ad esempio per le generazioni future. La tomba della sua vittima è al pian terreno, un loculo all'altezza delle scarpe dei passanti, la si trova solo a fatica e chinando lo sguardo. Solo il nome, la data di nascita e di morte. Nulla a raccontare o almeno simboleggiare chi fu Guido Rossa, il coraggio civile con cui spezzò il muro della paura e delle connivenze verso il terrorismo rosso. Coraggio che pagò con la vita e continua a pagare: «Guido Rossa infame», dice la scritta che ieri appare sulla Salita Santa Brigida.
Le loro strade, in realtà, si erano incrociate già all'inizio degli anni Settanta, in quella città-fabbrica che era l'Italsider di Cornigliano. Rossa non ancora leader sindacale, ma già militante di spicco del Pci e della Cgil; Dura operaio dell'indotto, assunto da una delle tante aziende che curavano la manutenzione, e già militante di Lotta continua. Andrea Marcenaro, che di Lc di Genova era uno dei dirigenti, se lo ricorda bene: «Un introverso con un passato difficile alle spalle, e con una forte spinta di radicalità». Dura passa alle Br dopo la metà degli anni Settanta. Marcenaro lo rivede all'improvviso in una foto di giornale, alla fine di marzo del 1980, pochi giorni dopo il blitz dei carabinieri che in via Fracchia aveva eliminato fisicamente la colonna genovese delle Br: «Uno solo dei morti non era stato identificato. Su Paese sera apparve la foto del corpo all'obitorio, e io riconobbi Dura. Capii che le Br puntavano ad alimentare il mistero, dimostrare così la geometrica potenza della loro struttura clandestina. Ma io pensai che Riccardo non meritava una sepoltura anonima. Andai da un avvocato delle Br e gli dissi: o fanno loro il nome di Dura o lo faccio io. Prima di sera le Br mandarono il comunicato all'Ansa».
Via Guido Rossa oggi a Genova è uno stradone che porta verso i capannoni della Mittal, l'accaieria che ai tempi di Rossa e di Dura si chiamava Italsider. Il monolite rosso dell'altoforno è ancora lì, abbandonato. Non ci sono più i vecchi cancelli, quelli che a ogni cambio turno inghiottivano e sputavano i fiumi delle tute blu: i cancelli cui il piano originario prevedeva che Rossa venisse incatenato, con un cartello al collo, ma vivo. La punizione fu ritenuta troppo blanda dal coacervo di individui di estrazioni diverse che aveva preso la guida delle Br in una Genova livida e rabbiosa: gente di Lotta continua, di Potere operaio, qualche intellettuale arrivato dall'università trentina di Sociologia che della follia brigatista era stata l'incubatrice.
Non sapevano che condannando Rossa condannavano le Br, perché spezzavano quel filo sottile di indifferenza - se non di simpatia - con cui la classe operaia aveva accompagnato fino ad allora le gesta brigatiste (due anni prima se n'era reso ben conto Giampaolo Pansa ai cancelli della Fiat, dove lo sciopero per l'uccisione di Casalegno della Stampa era miseramente fallito: «Giornalista, ma se uccidono me, tu scioperi?»). Le foto di Rossa riverso nell'850, le foto di Pertini ai suoi funerali, segnarono una frattura irreparabile nel proselitismo brigatista nelle fabbriche. Da allora, i loro proclami risuonarono nel vuoto.
Guido Rossa ha vinto la sua battaglia, a dispetto della sua tomba polverosa e quasi anonima.
Riccardo Dura l'ha persa, ben prima che i carabinieri gli presentassero il conto in via Fracchia. Sulla sua tomba, accanto ai garofani rossi, un cartello avvisa che il prossimo ottobre, i resti «saranno trasferiti all'ossario generale, senza possibilità di recupero».
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