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Onere della prova ai lavoratori. Così Renzi uccide il reintegro

La mossa sull'articolo 18: spetterà al dipendente convinto di essere stato licenziato ingiustamente dimostrare le proprie ragioni. Fino a oggi toccava agli imprenditori

Onere della prova ai lavoratori. Così Renzi uccide il reintegro

La vera rivoluzione renziana del lavoro è l'inversione dell'onere della prova sull'articolo 18. Vale a dire: spetterà al dipendente convinto di essere stato licenziato ingiustamente o illegittimamente dover dimostrare le sue ragioni per chiedere il reintegro (o l'indennizzo) e non l'azienda a dover fornire le prove che la «scagionano». Un'idea forte, che ridurrebbe quella sorta di tana-libera-tutti per via giudiziaria che grava sul mercato del lavoro e che potrebbe davvero far saltare il chiavistello del reintegro a tutti i costi che finora ha penalizzato i datori di lavoro.

Ma quella di Renzi è anche una risposta a quanti lo accusano di inzuccherare la riforma del lavoro, come ieri ha fatto la Frankfurter Allgemeine Zeitung parlando di «annuncite» del premier. E pazienza se all'orizzonte si profila forte e chiaro un inasprimento dello scontro del premier con i sindacati e con l'ala sinistra del Pd che sul Jobs Act sta combattendo una guerra di trincea.

L'armistizio che sembrava imminente è rinviato a data da destinarsi. Il successo quasi bulgaro nella direzione di lunedì scorso ha convinto Renzi ad andare diritto per la sua strada alla faccia dei «diciottisti», i compagni di partito che non vogliono svuotare del tutto l'articolo dello Statuto dei lavoratori che rende il licenziamento un percorso a ostacoli. Attualmente la legge prevede tre tipologie di licenziamenti. Se su due - quello discriminatorio, per il quale il reintegro è un totem che nessuno si permette di toccare, e quello economico, per il quale al dipendente resterebbe solo un diritto al risarcimento - regna la pax , la battaglia si incentra sul terzo, quello disciplinare, il più importante perché il più fumoso e quindi quello che attualmente dà origine al maggior numero di reintegri. La linea del Piave della riforma. Inizialmente il governo aveva annunciato di voler sbianchettare totalmente il reintegro per questo tipo di interruzione di rapporto di lavoro, sia nel caso di giusta causa (una presunta violazione grave del dipendente) sia per giustificato motivo (mancanze meno gravi). La guerriglia comunarda ha però costretto Renzi ad aprire a una modifica del Jobs Act su questa materia, che però trasformerebbe la riforma del lavoro nella solita «riformina» renziana.

Fino a martedì sembrava imminente un emendamento del governo che recepisse l'accordo raggiunto lunedì nella direzione politica del Pd. Ma ora pare chiaro che il governo voglia tirar dritto, affidando eventuali correzioni di tiro ai margini di manovra che comunque la delega gli lascia. Renzi accontenta così la richiesta dell'Ncd espressa da un allarmatissimo Maurizio Sacconi, che del Jobs Act è relatore in commissione Lavoro del Senato: «Non è detto che verrà presentato un emendamento aggiuntivo perché la delega contiene criteri precisi, ma anche sufficientemente ampi per poi entrare in dettagli successivamente». E la renziana di ferro Maria Elena Boschi conferma, allontanando le voci di un possibile ricorso al decreto: «Il ministro Poletti sta valutando in queste ore se presentare un emendamento o ritenere sufficiente il testo della delega e tradurre l'accordo politico nei decreti delegati».

Alla fine l'accordo politico tutto interno al Pd per un ammorbidimento sull'articolo 18 da parte del governo finirà probabilmente declassato a semplice ordine del giorno. Una mozione di intenti e poco più, che sa tanto di trappola per i pasdaràn del reintegro. «Un semplice ordine del giorno non è sufficiente. Già la legge delega è generica, così sarebbe troppo», soffia frustrato Federico Fornaro, senatore della minoranza Pd. La riforma è una coperta corta: se la tiri da una parte scopri l'Ncd, se la tiri dall'altra fai prendere freddo ai veterocomunisti.

Quello che sembra stare sempre al caldo è Renzi.

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