Questa volta Angela Merkel non ha dovuto esporsi più di tanto: a recitare pubblicamente la parte dei cattivi ci hanno pensato gli altri. Le prime e speranzose richieste di Alexis Tsipras si sono via via infrante contro il muro del Fondo monetario internazionale; di Spagna, Irlanda e Portogallo, stizziti per aver dovuto bere fino in fondo l'amaro calice dell'austerità; dei Paesi dell'Europa orientale ex-comunista, furibondi per il solo fatto di essere chiamati a salvare un Paese più ricco e viziato di loro. Nella squadra tedesca la parte del signor no è stata affidata al Ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble.
Lei, la Cancelliera, ha potuto fare quello che preferisce: rimanere un passo indietro pronta a raccogliere i fili del negoziato, offrendo all'opinione pubblica un commento ogni tanto, ora ottimista («Volere è potere»), ora più negativo («Mi dicono che ci sono stati passi indietro»). È il «Merkiavellismo», così viene chiamato in Germania, nella sua forma più pura: nessun colpo di scena, nessuna visione spiazzante in grado di cambiare i termini della questione sul tavolo, di aprire un orizzonte nuovo alla discussione. Tutto il contrario: l'approccio è quello tattico, i termini del problema vanno analizzati ingegneristicamente, smontati e rimontati fino a trovare lo spiraglio giusto. Di questo metodo la Merkel è maestra. E negli ultimi cinque anni vissuti pericolosamente, tutte le crisi che si sono succedute in Europa sono state affrontate in questo modo. Affrontate ma non risolte, visto che dopo cinque anni, un passo dopo l'altro, siamo arrivati sull'orlo del baratro.
Il problema è che il sentiero scelto dalla Merkel si snoda su un crinale sempre più sottile. Non solo per l'intero continente, ma anche per lei. Le intemperanze del governo di Atene sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso dell'opinione pubblica tedesca. Due settimane fa Yanis Varoufakis, effervescente ministro delle finanze greco, è stato invitato dai sindacati per una conferenza a Berlino. Fino a qualche tempo fa sarebbe stata una rimpatriata tra vecchi compagni. Il primo intervento del pubblico ha fatto subito capire che l'aria era cambiata. Si è alzato un signore di mezza età che ha inchiodato l'ospite: signor Varoufakis, lei può fare la politica che vuole, ma la smetta di presentare il conto al contribuente tedesco. Nello scorso febbraio 135 deputati votarono una mozione per escludere un altro pacchetto di aiuti ad Atene, oggi una qualsiasi eventuale intesa con i greci avrebbe dovuto fare i conti con un'incognita: il numero di ammutinati nelle file parlamentari della Cdu.
Ma anche un mancato accordo, l'uscita della Grecia dalla moneta unica, la fine del progetto perseguito da tutti i leader tedeschi del dopoguerra (ieri lo ha ripetuto ancora una volta lei stessa: «Se fallisce l'euro, fallisce l'Europa») segnerà per sempre il suo nome. L' incapacità di proporre una visione in grado di proseguire il percorso avviato da Konrad Adenauer e concretizzato da Helmut Kohl diventerà l'eredità più cospicua dei suoi 10 anni (fino ad oggi) di potere. A quel punto la fin qui inossidabile Cancelliera potrebbe iniziare a pagarne il prezzo anche sul piano interno. La sua corsa ha perso progressivamente slancio. I sondaggi continuano a sorriderle ma il suo partito oggi guida il governo solo in quattro Laender. Come se non bastasse, il partito «amico» che le ha sempre tradizionalmente dato una mano, quello dei liberali della Fdp, è ormai scomparso dai radar della politica.
Sui giornali si sono già fatti più numerosi gli articoli e gli scenari su come sarà la Germania senza di lei. A giocare a suo favore, ha scritto di recente il settimanale Der Spiegel , è ancora e soprattutto un elemento: l'assenza di un credibile leader alternativo. Sia in Germania sia in Europa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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