Orfini, il grande oppositore convertito

Dalle primarie sulle barricate alla difesa totale dell'operato del «capo»

Roma C'è un altro Matteo, nel Pd, che gioca da jolly nella formazione del premier, elargendo interviste sotto il sole agostano capaci di far stare Renzi sereno, a Rio come a Roma.

L'altro Matteo è Orfini. Oppositore del rottamatore fiorentino ai tempi delle primarie, poi presidente del partito con la benedizione del segretario. Indipendente, insomma, eppure lealmente allineato. Difensore di Ignazio Marino contro il resto del Pd, poi killer del sindaco marziano su mandato del «capo». Commissario romano di un partito scosso da Mafia Capitale fino allo sfacelo delle recenti elezioni comunali, però non responsabile del tracollo figlio di un partito «corrotto» prima e dell'onda lunga della scandalosa inchiesta sulla cattiva politica capitolina. Pronto a criticare le ultime epurazioni in Rai ma lesto ad attribuirne la colpa ai vertici di viale Mazzini, mica a Palazzo Chigi. Fedelissimo di Renzi, si direbbe, anche se pronto a confessare di non averlo mai votato. Ai congressi del Pd, ovviamente, perché alle urne, come è noto, non c'è un solo italiano fuori da Firenze che abbia potuto votare il presidente del Consiglio.

Sia come sia, la strategia comunicativa di questa estate del Matteo barbuto ha riservato chicche e sorprese in ogni campo. L'altro giorno, come si diceva, Orfini ha affidato alle pagine di Repubblica la sua interpretazione realista del pasticcio in Rai. Andando giù pesante di bastone contro «chi ha gestito molto male questa vicenda», e indicando il colpevole senza tentennamenti in Campo Dall'Orto, ossia il dg piazzato lì proprio da Renzi. Però «non penso che ci sia stata la volontà del governo di imporre o condizionare queste scelte», ha chiarito Orfini: «Le hanno fatte gli amministratori. Se però in un'azienda come la Rai una come Berlinguer ritiene di aver subito un torto, significa che c'è davvero qualcosa di sbagliato».

Ieri, poi, riecco Orfini ospite del Fatto Quotidiano. L'esordio è grandioso. Renzi, giura, «non l'ho mai votato, in nessun congresso. E non è detto che lo voti nel prossimo». Però le botte le riserva all'ex maestro Massimo D'Alema («Per anni capofila di una battaglia contro la deriva minoritaria e per una sinistra moderna e riformista, ora organizza comitati per il No con Flores D'Arcais che gli faceva i girotondi contro») e a Gianni Cuperlo («Sa benissimo che non siamo un partito estinto»), che Orfini appoggiò alle primarie 2013. Quanto al distacco tra il Pd e le periferie, Orfini fa risalire l'emorragia del voto dem a venti anni fa, quando Renzi faceva ancora lo scout. E le critiche da lui sottoscritte su articolo 18 e Jobs Act sono ancora valide ma sopite perché, per Orfini, anche se gli è toccato accettare una «mediazione», alla fine «il quadro generale del mercato del lavoro» è migliorato. Ed è migliorato pure Renzi, spiega Orfini al Fatto: «Ai tempi diceva di stare dalla parte della Bce, oggi invece il suo principale merito è l'impegno per superare le politiche di austerità in Europa».

Qualche divergenza, concede Orfini, c'è ancora, ma anche lui «qualche idea» l'ha cambiata. Per marciare insieme, responsabilmente, caricandosi sulle spalle «il destino del Pd e del governo». E quello del Paese, che il governo e il suo capo non l'ha mai votato. Proprio come lui.

MMO

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