Oriundi in Nazionale, ipocriti nella nazione

Vogliono i calciatori azzurri ma poi li boicottano

Oriundi in Nazionale, ipocriti nella nazione

È noto che il calcio si alimenta di polemiche, senza le quali probabilmente non susciterebbe tanto entusiasmo popolare. Ma quella scoppiata negli ultimi giorni non ci sembra opportuna né fondata. Il ct della Nazionale, Conte, ha convocato per la prossima partita, valida per le qualificazioni al campionato europeo del 2016, due oriundi: Eder (Sampdoria) e Vazquez (Palermo) che hanno il doppio passaporto e non sono nati in Italia.

E c'è chi non ha digerito la scelta dell'ex allenatore della Juventus. Roberto Mancini, ad esempio, afferma che solamente i nostri connazionali hanno il diritto di indossare la maglia azzurra. E precisa: non importa se la nostra rappresentativa schiera giocatori di genitori stranieri; ciò che conta è che essi siano venuti al mondo nel Bel Paese. È una teoria rispettabile. D'altronde il Mundial del 1982 lo vincemmo con undici compatrioti, se si esclude Gentile (terzino insuperabile e di ferro) che nacque in Libia da una coppia di sposi italianissini, e sarebbe una forzatura considerarlo forestiero.

Anche nel 2006 in Germania, quando battemmo in finale la Francia (ai rigori) la formazione era nostrana, con una sola eccezione: Camoranesi, oriundo, un cognome che più italiano non si può. Non solo. L'ostracismo verso gli stranieri non è una novità. Nel 1962 gli azzurri parteciparono alla coppa Rimet in Cile, e scesero in campo con due oriundi, Maschio e Altafini, per affrontare l'equipe locale. Più che una partita fu una guerra: la chiamarono la Battaglia di Santiago. Inutile dire che perdemmo, incassando più pugni che gol.

Da quel momento gli oriundi furono messi al bando. Solamente Altafini sarebbe stato tollerato, eccezionalmente, per mancanza di un centrattacco casereccio. Anche se poi non vestì più l'azzurro nemmeno lui. E le cose non migliorarono. Quattro anni più tardi, nel 1966, in Inghilterra fummo eliminati dalla Corea del Nord, e sottolineo Nord: rete di un dentista passato alla storia, anzi alla barzelletta. Nel 1968 la squadra azzurra, complice la famosa o famigerata monetina, vinse gli Europei senza l'aiuto di oriundi, considerati mercenari, buoni per i club, non per rappresentare la patria pallonara. Questa è la tribolata storia della legione straniera.

Ma attenzione. Per lungo tempo anche i club furono costretti a limitare a due (massimo tre) le presenze di atleti non indigeni. Ciononostante, le nostre squadre non sfigurarono nelle competizioni internazionali, anzi, si aggiudicarono varie coppe. Poi entrarono in vigore le leggi europee che hanno incasinato l'intero sistema: i calciatori comunitari hanno il diritto di essere ingaggiati da chi desidera utilizzarli. Adesso, se scorri la formazione dell'Inter e della Fiorentina, per citarne due, non trovi un nome italiano neanche a cercarlo con il lanternino. Oddio, talvolta i nerazzurri si avvalgono di Ranocchia e Santon, ma i loro compagni o sono di colore o hanno cognomi pieni di «X», «Y» e «K», talché imparare a memoria l'«undici» nerazzurro o viola è un'impresa che riesce soltanto ai telecronisti.

I calciatori made in Italy sono rarità, roba da amatori e collezionisti. Gli allievi dei vivai giovanili, quand'anche promettenti, non trovano posto in prima squadra e sono obbligati a scendere in serie B e nella vecchia serie C che non offrono palcoscenici in vista. Perfino tanti campioncini rimangono nel limbo del calcio minore e lì appassiscono senza aver avuto la possibilità di essere valorizzati. Guardate gli ultimi arrivati in nazionale: Valdifiori e lo stesso Eder, hanno 28 anni e soltanto ora sono riusciti - per caso e per fortuna - a emergere nel mucchio selvaggio delle speranze, di norma tradite per carenza di entusiasmo. Il mondo, incluso quello della palla, è cambiato naturalmente in peggio per un motivo semplice e drammatico: i mediatori (detti procuratori) pescano brocchi sul mercato estero e li rifilano alla società a prezzi modici (si fa per dire) e trascurano i nostri «prodotti» perché si prestano meno a pastette, cioè imbrogli e stecche sottobanco.

Il calcio si è imbastardito, troppa gente mangia nella greppia delle intermediazioni e per i ragazzi di talento non c'è spazio poiché nessuno ha l'interesse di promuoverli, non rendono subito sul piano commerciale. Con le squadre imbottite di stranieri, i giovani rimangono in anticamera a fare tappezzeria. E la nazionale ne soffre, non ha ricambi, zero virgulti. Ovvio che il povero Conte, boicottato dalle società (per sua ammissione), è costretto a rispolverare gli oriundi.

Non ci piacciono? Il rimedio c'è.

Così come in politica e nelle aziende pubbliche sono state introdotte le quote rosa in omaggio al principio «largo alle donne», si applichi il medesimo criterio nel football imponendo le quote tricolori alle squadre professioniste. I frutti sono garantiti, con buona pace di Mancini e di chi predica bene per la nazionale e razzola male nel proprio club.

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