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Parigi dichiara "strategico" lo yogurt ma rifiuta il nostro "salva editoria"

I francesi proteggono le loro società dagli appetiti stranieri. Vivendi si lamenta dell'Italia e la Ue chiede chiarimenti

Parigi dichiara "strategico" lo yogurt ma rifiuta il nostro "salva editoria"

In una vecchia canzone di George Brassens si parla di «une fesse qui dit merde à l'autre» (una chiappa che dice m... all'altra). È la versione, molto più volgare, dell'italiano «bue che dice cornuto all'asino». La Francia, o comunque un'azienda francese, che si appella alla Commissione europea per denunciare le tentazioni protezioniste di un altro Paese fa un po' quell'effetto. Eppure, a giudicare dalle indiscrezioni giornalistiche, è ciò che è successo nelle ultime ore.

A lamentarsi è il gruppo Vivendi, nel mirino c'è la norma approvata dal Senato italiano nei giorni scorsi e ancora, in realtà, non definitiva: per sei mesi e in attesa di una riforma della Legge Gasparri (dichiarata parzialmente illegittima dalla Corte di Giustizia Ue) l'Autorità per le comunicazioni della Penisola avrà diritto di bloccare le acquisizioni di partecipazioni con effetti distorsivi sul mercato editoriale. La disposizione avrà effetti generali, ma potrebbe trovare applicazione anche per la tentata scalata di Vivendi a Mediaset. E di questo si lagnerebbero i francesi, che avrebbero allo studio una lettera da inviare a Bruxelles. Così, ieri, il portavoce dell'esecutivo europeo, sollecitato dai giornalisti, ha reso esplicita la sua posizione: se la nuova norma «diventerà legge la Commissione l'analizzerà per verificare il rispetto della legislazione europea». Le misure che riguardano il settore dei media, ha proseguito ancora il portavoce, «devono essere proporzionate all'obiettivo del pluralismo dei media, tenendo conto degli sviluppi di mercato e degli andamenti globali del settore».

Parole all'apparenza di routine, ma che potrebbero anche segnare un'escalation «politica» della vicenda. Di sicuro i francesi di protezionismo e di vincoli alle aziende straniere se ne intendono. Il caso più famoso, di qualche anno fa, è ormai entrato negli annali. Nel 2005 la Danone, colosso dell'alimentare transalpino, attirò l'attenzione dell'americana Pepsi, che sembrava disposta a una acquisizione. Il mondo politico francese si mobilitò compatto: il primo ministro Dominique de Villepine, dichiarò che avrebbe difeso «gli interessi della Francia»; l'allora presidente, Jacques Chirac, garantì che sarebbe stato «vigilante» contro ogni minaccia. Alla fine gli yogurt vennero dichiarati «strategici per l'interesse nazionale» e la Pepsi dovette farsi da parte.

In tempi più recenti a sperimentare quanto sia ingombrante l'ingerenza dello Stato francese è stata Fincantieri. Sembrava avviata alla conquista senza condizioni dei cantieri navali Stx di Saint Nazaire, e invece, dopo l'intervento di Emmauel Macron (nella foto) e dei suoi uomini, ha dovuto accontentarsi di una maggioranza «in prestito»: il 50% del capitale per conto proprio e un 1% che Parigi assegnerà provvisoriamente agli italiani per 12 anni e che poi farà ritorno Oltralpe.

Qualcosa del genere ha vissuto anche John Elkann, numero uno di Fiat-Chrysler. Prima della recente alleanza con Psa aveva già chiuso l'intesa con Renault. L'accordo era fatto, dopo un consiglio d'amministrazione della società francese durato più di quattro ore. Ma i manager non avevano fatto i conti con il primo azionista, il ministero delle Finanze, che ha bloccato tutto con una serie di richieste considerate impraticabili da chi aveva condotto le trattative (non solo dagli italiani): diritto di veto sulle nomine, garanzie occupazionali per gli stabilimenti francesi, un posto assicurato in consiglio d'amministrazione. Dopo il primo insuccesso, per chiudere l'accordo con Psa-Peugeot, Fca ha dovuto accettare una condizione: rimanere in minoranza in consiglio.

La scelta di cinque amministratori spetta agli italiani, i francesi ne hanno sei.

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