«Crede di essere diventato il Re Sole, ma sta lì solo perché ce lo abbiamo messo noi».
La battuta rabbiosa (e coraggiosamente anonima) di un esponente di governo grillino, che fa il paio con il «mi frega meno di zero» di Salvini, fa capire la profondità del malumore che dai due partiti tracima verso l'azzimato Conte.
Un malumore che rivela la loro impotenza nei confronti di un premier che, per circostanze del tutto indipendenti dalle sue (non pervenute) qualità di statista, ma certo connesse ad una certa abilità manovriera maturata in anni di navigazione nel sottobosco romano, sta sfuggendo al loro controllo. La conclamata inabilità dei Cinque Stelle e i pericolosi scivoloni di Salvini nelle sue confuse avventure oltrefrontiera hanno reso Conte l'unico possibile referente (per mancanza di meglio) di molti mondi: dal Quirinale alle cancellierie europee, dagli Usa agli apparati. L'unico che possa garantire, se non visione di governo, almeno qualche equilibrio basilare: rapporti decenti con la Ue, appartenenza atlantica.
Il vertice a due Salvini-Di Maio ieri era un tentativo di ripristinare la supremazia politica dei vice, escludendolo platealmente. Lui reagisce stizzito: «Dobbiamo lavorare, non chiacchierare», borbotta. Poi organizza la sua contromossa d'immagine: fa convocare le telecamere davanti al ristorante dove va a «mangiare sushi con il suo staff», come recitano le veline di Casalino, e fa finta di schermirsi dai gossip di palazzo: «È pura fantasia che io possa andare in Parlamento a cercare maggioranze alternative, o che io voglia addirittura dare vita a un mio partito», giura aggiustandosi il ciuffo imbrillantinato.
Peccato che quelle voci siano assiduamente alimentate dal suo ufficio stampa e propaganda, che sussurra in orecchie ben disposte di fantasiosi «piani B» con Conte protagonista e invita a sottolineare i mirabolanti sondaggi di popolarità del premier. O in alcuni casi è lui medesimo a provocare quelle voci: mercoledì, in Senato, ha usato uno dei suoi ampollosi e un po' oscuri giri di frase per avvertire Salvini che, in caso di rottura, «parlamentarizzerebbe» la crisi, e che in Parlamento potrebbe succedere qualsiasi cosa.
Ieri Conte ha negato tutto: niente partito, niente maggioranze alternative, «non facciamo i peggiori ragionamenti da Prima Repubblica. Restituiamo alla politica la sua nobiltà, la sua nobile vocazione. Voliamo alto», invoca lirico.
Negare in pubblico, incitare in privato: la minaccia di «piani B» o addirittura di un «partito di Conte» pronto a scendere in campo in caso di voto, con l'appoggio (secondo fantasiosi retroscena) di prelati vaticani e damazze capitoline, di apparati burocratici, feluche e associazioni religiose, sono in verità soprattutto un'arma deterrente, usata per restare dove è e con la maggioranza che c'è. I sondaggi, quelli noti e anche quelli commissionati da Palazzo Chigi, dicono che una lista contiana registrerebbe con ogni probabilità un clamoroso flop: intorno al 2%, con un potenziale massimo di interesse elettorale all'8%, secondo Euromedia. E Conte non sarà Aldo Moro (come scrive Scalfari, probabilmente uscito senza cappello nel solleone), ma fesso non è: con quelle percentuali non diventerebbe premier neppure se tutti gli altri aspiranti venissero sterminati da un asteroide.
Dunque l'obiettivo è resistere, contando sul progressivo indebolimento dei suoi azionisti: Di Maio e la Casaleggio non vogliono andare al voto neppure sotto tortura; Salvini, impaniato dai suoi guai, non sembra in grado di andarci. E Conte può restare sulla sua poltrona.
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