Il professor Alessandro Campi, direttore della Rivista di Politica, sottolinea che «i partiti sono soprattutto progetti e la leadership conta sino ad un certo punto». Però condivide l'idea lanciata dal leader leghista Matteo Salvini attraverso Il Giornale, cioè federare le forze di centrodestra in un contenitore associabile al Partito repubblicano americano.
Professor Campi, lei è uno storico sostenitore dell'unità del centrodestra. È persuaso dall'idea di federare più realtà in un Partito repubblicano?
«L'obiettivo è interessante è condivisibile, c'è da capirsi sul metodo e sul vero obiettivo finale. Federazione o fusione, partiti organicamente alleati ma formalmente divisi oppure un partito unitario? L'idea di un grande partito conservatore-moderato (che guarda al centro, non a sinistra come faceva la Dc) mi sembrerebbe persino il punto di arrivo a questo punto obbligato di una alleanza, quella cosiddetta di centrodestra, che dura, seppur tra alti e bassi, da quasi trent'anni. C'è poi una banale considerazione tattica da fare: se il centrodestra si divide, tutti coloro che attualmente ne fanno parte sono destinati a sconfitta politica certa».
L'operazione consentirebbe alla Lega di fare un passo in direzione del Partito popolare europeo e un passo di lato rispetto al cosiddetto populismo sovranista?
«Tra il popolarismo di matrice cristiano-liberale e l'estrema destra nazional-populista c'è una via di mezzo. L'importante è non concepire quest'operazione come escludente nel confronto della Meloni e di Fratelli d'Italia. Mi sembrerebbe politicamente miope».
Il Partito repubblicano, negli Stati Uniti, contiene anime molto diverse tra loro. Quali istanze, in Italia, possono cementare un progetto politico simile?
«Nei repubblicani americani convivono cristiano-fondamentalisti e anarco-libertari, conservatori classici e populisti. Segno che si può convivere nel pluralismo. Quanto alle istanze o idee, direi alla rinfusa: presidenzialismo, difesa dell'identità storica nazionale, più società meno stato burocratico, salvaguardia delle tradizioni sociali e religiose (ma senza chiusure razzistiche o bigottismi), made in Italy (come sintesi di creatività e spirito imprenditoriale), cultura del merito individuale, la sicurezza come premessa di un'ordinata convivenza, equità sociale...».
Metodologia e tempistiche: ha qualche consiglio da dare a Matteo Salvini per la riuscita?
«Meno interviste estemporanee o tweet. Serve un percorso serio e coinvolgente: Stati generali, chiamata a raccolta del mondo intellettuale interessato da questa prospettiva, discussione politica franca e aperta (non limitata ai capi), coinvolgimento di elettori e simpatizzanti, i giornali d'area a fare da tribuna. Così nascono le idee. E sono buone, diventano politica quasi da sole».
Buona parte del sistema partitico odierno, come la vicenda del Quirinale ha dimostrato, è balcanizzato. Una semplificazione può attrarre la «maggioranza silenziosa»?
«Esiste storicamente un blocco sociale relativamente omogeneo - la destra sommersa, la maggioranza silenziosa, il gran corpaccione del moderatismo italico - che è la premessa sociologica di una simile operazione. I capi del centrodestra, oltre a preoccuparsi del loro personale destino, dovrebbero parlare di più coi loro elettori. Li scoprirebbero più uniti di quanto non siano i vertici dei partiti che li rappresentano».
Quale pantheon politico-culturale per il nuovo «Partito repubblicano italiano»?
«Dallo Sturzo critico della partitocrazia e dello statalismo al Miglio federalista, dal Prezzolini scettico-conservatore alla grande tradizione storiografica nazional-liberale sulla linea Volpe-Chabod-Romeo-De Felice, dalla sociologia elitista (Mosca, Pareto,
Michels) all'anti-progressismo di Del Noce. L'importante è non mettersi a scimmiottare tradizioni ideologiche che non sono le nostre. Anche se non mi sembra che la battaglia delle idee sia una priorità dei politici odierni».
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