Il Pd perde tempo coi grillini e provoca un ingorgo in aula

Roma«Noi chiudiamo le riforme costituzionali al massimo entro 15 giorni». È una corsa contro il tempo quella di Matteo Renzi per condurre in porto la prima delle quattro votazioni sulla riforma del Senato entro la pausa estiva. Un percorso a ostacoli, costellato da molte incognite e variabili.
L'aula di Palazzo Madama sarà aperta e impegnata fino all'8 agosto. Le sedute si terranno dal lunedì al venerdì, come deciso dalla conferenza dei capigruppo, cercando di ridurre al massimo i tempi morti e i week-end lunghi per sbloccare «l'ingorgo». Da lunedì riprenderà il dibattito sulle riforme e nella seduta pomeridiana potrebbero iniziare le votazioni. Le riforme impegneranno l'aula fino a giovedì, poi arriverà il decreto competitività. Dal 28 luglio al primo agosto sarà la volta del decreto cultura che scade il 30 luglio e subito dopo si tenterà di approvare il decreto PA. Dal 4 all'8 agosto sarà la volta del decreto carceri, dell'esame del bilancio interno. Un programma di lavoro redatto con la penna dell'ottimismo, secondo la voce disincantata di molti senatori. Innanzitutto perché alcuni di quei decreti non sono ancora pronti, in secondo luogo perché bisognerà decidere come affrontare la montagna di emendamenti, 7.800, che i gruppi parlamentari e i singoli senatori metteranno in campo.
Il voto sulle proposte di modifica al testo è ottimisticamente previsto tra lunedì pomeriggio e mercoledì sera. Ma Roberto Calderoli, relatore con Anna Finocchiaro del ddl Riforme, già pianta alcuni paletti. «Se gli emendamenti saranno nella nostra disponibilità da lunedì mattina, io pretendo di avere il tempo per fare un lavoro serio, e credo lo stesso valga per la mia collega. Diversamente, lo spirito collaborativo cambia», dice in aula. «Non c'è nessun contingentamento sulle riforme. Non facciamo quindi conteggi dei tempi, perché non siamo di fronte a questa situazione». Anche Forza Italia, con Donato Bruno, chiede «un congruo tempo da dare a tutta l'Assemblea per poter leggere gli emendamenti».
Se il Pd cerca l'accelerazione decisiva, deve anche fare i conti con il nuovo tentativo di «re-inserimento» del Movimento 5 Stelle nella partita delle riforme. Ieri, sotto il consueto occhio della diretta streaming, i grillini e il premier sono tornati a confrontarsi. Maniche di camicia bianca, blue jeans, giacca appesa allo schienale e sedia laterale al tavolo delle due delegazioni. Matteo Renzi si è inizialmente tenuto a distanza non solo metaforica dal centro della discussione, ostentando un certo distacco. Poi i botta e risposta con Luigi Di Maio non sono mancati. In particolare i grillini si sono concentrati sulla legge elettorale, con una proposta che prevede un primo turno proporzionale senza sbarramento e un eventuale secondo turno, qualora nessuna lista superi il 50%, tra i partiti che hanno preso il maggior numero di voti (con un premio di maggioranza al 52%). Resta aperto il nodo delle preferenze, tanto care ai grillini. «Sulle preferenze mi sembra ci sia un po' di paura. Siete disposti a cedere in cambio della governabilità?», chiede Di Maio. «Perché dovremmo fare un mercimonio della riforma?», risponde Deborah Serracchiani. Ma Renzi non sbatte la porta: «Il punto vero è capire se su questo tema riusciamo a trovare un punto di caduta o meno».

Sullo sfondo qualche critica arriva alla riforma costituzionale anche dai Comuni. «L'Anci considera insoddisfacente la previsione di partecipazione di 21 sindaci al nuovo Senato», dice Piero Fassino. «Un numero inadeguato rispetto al dovere di rappresentare oltre 8mila Comuni».

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