Bolle e ribolle, ma è la solita zuppa, quella nella quale annaspa il Pd rimasto fuori dai giochi. «Rischio azzeramento o irrilevanza», lo definisce Emiliano. Della grande squadra che pensava di essere, oggi rimane solo l'eccesso di presunzione che può costar carissimo, visto che - come l'ex Bersani fotografa nella migliore delle sue metafore - «la mucca nel corridoio era un toro, e ci è passato sopra».
Il segretario caduto da cavallo medita vendette e rivincite impossibili, a meno che non percorra il sentiero indicato da Macron in Francia rifondandosi con un nuovo partito (ma la grossa differenza diventa stridente, considerando che il nostro è ormai un perdente di successo). Il «reggente» Martina, intanto, ha cominciato in anticipo la via crucis visitando la martoriata Ostia, primo passo di un «percorso di ascolto e confronto sul territorio». Altrove, tipo l'altra sera a Ercolano, «i pochi militanti rimasti» si azzuffano con i dirigenti e i dirigenti tra di loro, e per fortuna c'era la polizia a dividerli. La sinistra interna ricomincia domani con i dibattiti (Cuperlo docet) e non resta che l'hashtag #ilpdcelafarà per un luttuoso sorriso di circostanza.
Se il premier Gentiloni, consigliato dal Quirinale, si mantiene su un profilo alto e lontanissimo dalle miserie del Nazareno (non si sa mai che la vita del suo esecutivo si allunghi a dismisura e, come dice Calenda, il «vero leader è lui, sbagliato non valorizzarlo»), all'Assemblea di metà aprile non parteciperà ai giochi l'unico candidato «forte» (si fa per dire), Zingaretti. Lui non si fida dei numeri di quell'assise, nelle mani renziane, e vuole semmai essere incoronato con tutti i crismi di congresso e primarie. Anche perché la sua giunta nel Lazio rischia di partire azzoppata, visto che non c'è la maggioranza e basterebbe un voto di sfiducia per mandarlo a casa. D'altronde, spiega il suo competitor Parisi, «Zingaretti ha commesso un grave errore: a quattro giorni dal voto ha fatto un'intervista per candidarsi alla guida del Pd e per dire che, anche se perdeva la maggioranza, sarebbe stato più libero di candidarsi alla guida del Pd». Così, per ingraziarsi i dieci grillini della Pisana dai quali oramai dipende la sua nuova consiliatura, ieri Zingaretti ha inaugurato una stagione d'amorosi sensi con la sindaca di Roma, Virginia Raggi. Che ha ottenuto pressoché tutto ciò che Roma Capitale chiedeva alla Regione Lazio, con in più la soddisfazione di uno schiaffo alla sconfitta Lombardi (sua nemica interna) nonché la possibilità di lanciare una mediazione più in grande stile, che porti il «metodo Roma» fino a configurare il famoso governo Di Maio con l'appoggio esterno di Pd e Leu. Come chiede da tempo Emiliano, come sollecita dall'esterno Bersani, come paventa l'azzurra Bergamini denunciando le «prove d'inciucio». L'ipotesi, tutta da verificare, parte però da convergenze «concrete» su fatti e perciò persino più seducenti delle chiacchiere. E Zingaretti, che ci marcia, non manca di sottolineare che «la convergenza sarà vera e profonda». Nel frattempo, al popolare Er Saponetta arrivano segnali positivi da Orlando, dopo che Franceschini si era visto chiudere ogni porta dai renziani per l'ipotesi di un governo «con tutti». L'attivissimo neo-iscritto Calenda però l'ha rilanciata: «Se Mattarella ce lo chiede, è giusto che il Pd ci stia».
Anche dall'incontro M5S-Pd per i presidenti delle Camere è emerso che la linea di chiusura non porta a nulla. Le due delegazioni si sono solo «annusate», ma i grillini hanno sventato la manovra pd che puntava sul leghista Giorgetti alla Camera per tentare il «colpo» al Senato. Sprovveduti forse, ma fessi proprio no.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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