Chissà se un giorno ci sarà davvero uno ius soli, un «diritto del suolo», per gli immigrati. Per come s'è intrecciato il tema con le torbide vicende di fine legislatura, quel che si vede somiglia piuttosto a uno ius sanguinis, un esame del sangue cui sottoporre Matteo Renzi per capire se appartiene o no alla famiglia della sinistra. E a un elementare «diritto alla sopravvivenza» per Angelino Alfano, sempre in cerca di cittadinanza nel futuro assetto politico.
Ma se il pressing ha raggiunto i limiti dello stalking, come ironizza il deputato forzista Squeri, significa che è già partita quel «lungo lavoro pedagogico» sollecitato ieri dall'ex premier Romano Prodi, che ritiene ancora possibile, «sgombrato il campo dalla manovra», portare a casa la legge. Certo, i numeri al Senato ancora non ci sono e non è ancora chiaro se conviene alla sinistra parlarne tanto, snidare e sfidare sul coraggio il pallido segretario del Pd (interessato, come si sa, soltanto ai sondaggi che indicano il tema tra quelli più sgraditi agli elettori: 56,2% contrari contro il 34,8 favorevole, secondo l'ultima rilevazione di Tecné). Oppure, come consigliava ieri il capogruppo del Pd a Montecitorio, Ettore Rosato, «non parlarne troppo, perché più ne parliamo e più l'obbiettivo si allontana». L'ordine di scuderia arriva direttamente dal Nazareno, infastidito dalla risonanza che l'attacco sferrato da D'Alema e bersaniani abbia dimostrato nei fatti l'opportunismo di Renzi fino a mettere in dubbio la sua appartenenza morfologica alla grande storia della sinistra. «Farsi guidare dalle paure e dai sondaggi è un pessimo modo di governare - insisteva il capogruppo di Mdp, Laforgia -, questa non è una legge qualsiasi. È un atto di civiltà. Su questo, oltre che sulla legge di bilancio, misureremo il nostro rapporto con la maggioranza e il governo». Che si tratti di «un banco di prova per i nostri elettori» lo ammette anche la fassiniana, ora renziana, Marina Sereni, in una lettera a Pisapia, sia pure nella vana impresa di dimostrare che governo e Pd siano all'altezza della sfida. Ma ciò che ha fatto discutere (e indignare) ieri è stata piuttosto l'idea, abbastanza peregrina, di buttare in campo il Vaticano per convincere gli alfaniani a saltare il fosso: «se non seguono loro i dettami del Papa, chi altri?», era il presupposto della provocazione, che trovava nel titolone di apertura di Repubblica il suo (quasi risibile, se non fosse la vigilia di Porta Pia) punto di sintesi. «Intesa governo-Vaticano», era scritto, e non si capiva se lo ius soli sarà applicato Oltretevere, oppure se il Sommo Pontefice, sovrano assoluto di uno Stato estero, avesse deciso di assumere finalmente la leadership parlamentare. Sponda esagerata, sembrava quella escogitata da Gentiloni (o dai soloni di largo Fochetti?) pur di avere Alfano docile, al seguito del Buon Pastore. Ma sia la fedele ministra Lorenzin, sia lo stesso Angelino, più tardi declinavano l'offerta (forse commettendo peccato non veniale). Contrari alla fiducia, gli alfaniani vorrebbero modificare la legge. Salvataggio in calcio d'angolo, in attesa (almeno) dei risultati in Sicilia. Così, mentre i presidenti di Camera e Senato proseguivano l'opera «pedagogica», il centrodestra insorgeva contro il presunto accordo col Vaticano, minacciando già il referendum abrogativo.
Interessante la prima uscita del candidato premier (in pectore) di Grillo: «È un tema da affrontare a livello europeo», diceva Giggino Di Maio. Parole pressoché indistinguibili da quelle di Antonio Tajani, presidente dell'Europarlamento e ormai riconosciuto «numero due» di Forza Italia.
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