Pensioni, governo nel caos tra «quota 100» e Ape social

Dimenticate le proroghe per le altre modalità di uscita come «opzione donna». E la Pa rischia la totale paralisi

Pensioni, governo nel caos tra «quota 100» e Ape social

Il capitolo pensioni nel 2019 si apre all'insegna del caos. L'iter travagliato della legge di Bilancio, approvata - per dirla con Conte - in zona Cesarini, ha lasciato in sospeso questioni fondamentali creando una pericolosa zona d'ombra tanto per quanti vorranno approfittare di «quota 100» quanto per coloro che speravano nella reiterazione di provvedimenti destinati ad anticipare le uscite dal lavoro come l'Ape social e «opzione donna». Analogamente, la Pubblica amministrazione pare impreparata al mostruoso turnover che l'abbassamento dell'età pensionabile produrrà e, nonostante le parole tranquillizzanti del ministro Bongiorno, nei fatti c'è una spinta a rallentare le dimissioni dei dipendenti ancora in servizio ma che vorrebbero lasciare. A tutto questo si aggiunge, per molte persone coinvolte, una necessaria riflessione sull'opportunità di abbandonare la propria posizione a fronte di un assegno più basso per via dell'uscita anticipata o della decurtazione sotto forma di contributo di solidarietà per coloro che riceveranno un trattamento superiore ai 100mila annui lordi.

Ma andiamo con ordine. Il problema più pressante, al momento, è la reintroduzione di Ape social e di «opzione donna» che sono scaduti il 31 dicembre. Nel decreto che istituirà «quota 100» dovranno trovare spazio queste misure che sono state escluse dalla manovra e che consentivano il pensionamento anticipato a 58 anni con 35 anni di contributi per le donne (a fronte di un ricalcolo contributivo della pensione) e a 63 anni di età con 20 anni di contributi per i lavoratori coinvolti dalle crisi aziendali, con familiari disabili, invalidi, precoci e che hanno svolto mansioni usuranti. A questi due provvedimenti si doveva poi accoppiare l'abbassamento dell'anzianità contributiva minima per la pensione anticipata. Nel 2019 è scattato l'adeguamento dell'età pensionabile all'aspettativa di vita previsto dalla legge Fornero e così si è passati per l'età anagrafica da 66 anni e 7 mesi a 67 mesi, mentre quella contributiva si è pure allungata di 5 mesi da 42 anni e 10 mesi a 43 anni e 3 mesi. Il governo avrebbe voluto stoppare quest'ultimo requisito, ma non l'ha fatto e dunque i lavoratori che hanno iniziato in giovane età dovranno aspettare il decreto.

Vi è poi il problema di «quota 100», ossia il pensionamento anticipato con 38 anni di contributi a partire dai 62 anni di età compiuti al 31 dicembre 2018. Ammesso e non concesso che il governo riesca a far convertire il decreto in legge all'inizio di febbraio (un po' difficile visto che ci sarà anche l'accoppiato decreto sul reddito di cittadinanza oltre a legittima difesa, decreto Semplificazioni e ddl Concretezza), toccherà poi all'Inps emanare i decreti attuativi e, quindi la partenza ad aprile della misura sembra quanto meno improbabile tenuto conto della finestra di tre mesi per i dipendenti del settore privato e di sei mesi almeno per il settore pubblico.

I 350mila beneficiari attesi per «quota 100», quindi, dovranno aspettare e fare un po' di conti in tasca, tenendo presente - nel caso dei 200mila dipendenti del settore privato - che il divieto di cumulo di reddito da lavoro con reddito da pensione rende impossibile ottenere un contratto di consulenza dalla vecchia azienda. Per i circa 150mila dipendenti della Pa, invece, il problema è rappresentato dagli altri 150mila lavoratori che possono andare in pensione con i requisiti della legge Fornero. Il rinvio delle assunzioni a novembre 2019 rende più complicata la programmazione del turnover e il rischio di restare «bloccati» al proprio posto è concreto.

Ecco perché la Cgil ha chiesto al governo di convocare i sindacati prima del varo del decreto. Il 39,7% dei dipendenti a fine 2016 aveva tra 55 e 64 anni. I benefici di «quota 100» rischiano di essere vanificati dalla necessità di evitare la paralisi.

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