PERCORSO A OSTACOLI La maggioranza tiene al primo voto segreto. E Grasso taglia 1400 emendamenti

PERCORSO A OSTACOLI La maggioranza tiene al primo voto segreto. E Grasso  taglia 1400 emendamenti

Roma Senato rovente. È una giornata ad alta tensione, quella che va in scena nell'aula di Palazzo Madama sul ddl riforme. Un percorso estenuante in cui le fibrillazioni politiche, soprattutto interne al campo del centrosinistra, e quelle regolamentari si intrecciano in un rovo inestricabile.

Fin dal mattino il tentativo è quello di stabilire una road-map credibile per chiudere il primo passaggio parlamentare in tempi certi. Dopo un lungo dibattito e due riunioni in capigruppo, non viene trovato alcun accordo. La proposta di mediazione avanzata da Vannino Chiti - che fa seguito a una trattativa notturna interna al Pd punteggiata da contatti con Sel - cade nel vuoto. E così i decibel impazziscono, in un clima di contestazione sempre più scoperto contro il presidente Pietro Grasso, definito dai leghisti «un arbitro Moreno delle istituzioni» (secondo voci di Transatlantico gli stessi esponenti del Pd avrebbero provato in una riunione a far guidare l'aula a Roberto Calderoli). «Grasso dicci cosa ti hanno promesso? La seconda pagina del patto del Nazareno reca forse il tuo nome?», azzarda su Twitter il senatore del M5S Vito Crimi.

Il nodo è la decisione di votare per parti separate gli emendamenti più delicati. Ma alla prima prova del voto segreto - chiesto su un emendamento di Sel relativo alla tutela delle minoranze linguistiche - il patto Pd-Forza Italia regge. E la proposta di modifica viene bocciata con voto palese. La successiva bagarre esplode quando nel tardo pomeriggio viene respinto un emendamento di Sel che, in base al meccanismo detto «del canguro», fa decadere 1.400 emendamenti in un colpo solo. Una rasoiata che accende una nuova ondata di feroce contestazione.

La proposta di mediazione mattutina, firmata da Vannino Chiti, suggeriva di posticipare a settembre le dichiarazioni di voto e il voto finale, e al tempo stesso ridurre il numero degli emendamenti. La richiesta, sia pure con qualche distinguo, ottiene il via libera del ministro Maria Elena Boschi e da diversi gruppi, compreso quello di Forza Italia. Il semaforo rosso viene, invece, acceso dai grillini che insistono nel voler sottoporre all'aula tutti i loro duecento emendamenti. Il vero braccio di ferro è, però, quello con Sel. Il gruppo di Nichi Vendola che di emendamenti ne ha messi in campo ben seimila, si dice disponibile a una apertura al «lodo Chiti» soltanto «a fronte di una disponibilità concreta a modifiche sostanziali al testo» con «la fine del Patto del Nazareno». Posizione che suscita la dura reazione del capogruppo Pd Luigi Zanda: «Se Sel non riduce il numero dei propri emendamenti, non ci sono le condizioni per una mediazione». Alla fine si decide di procedere comunque alla convocazione di una capigruppo che si rivela un fallimento, con Sel che tiene il punto e respinge qualunque sirena piddina.

La reazione dei renziani è durissima e si proietta sulla futura convivenza con Sel alle prossime Regionali, con una sorta di annuncio in diretta della fine di ogni alleanza. «Mi pare che Sel abbia una posizione di principio che non condividiamo ma che rispettiamo. È evidente che a mio giudizio questo preclude ogni alleanza futura, soprattutto sul territorio. Non so voi, ma io un accordo politico con chi distrugge la Carta non lo farei» dice il sottosegretario (e braccio destro di Renzi) Luca Lotti. Un annuncio che non manca di suscitare brividi e timori, soprattutto nell'ala più dialogante di Sel. Tanto più che anche Maria Elena Boschi usa toni affilati. «Gli italiani non si meritano le scene che hanno dovuto vedere oggi in Senato e forse neanche quest'Aula. Non cederemo al ricatto dell'ostruzionismo. Si può approvare il ddl entro l'8 agosto? Si può fare se c'è una disponibilità al dialogo anche delle opposizioni».

Sullo sfondo c'è l'offensiva dei grillini che - relegati alla periferia della trattativa politica - provano a conquistare visibilità mediatica. Se in aula va in scena la «protesta dei regolamenti», con il libretto battuto ritmicamente sui banchi, fuori è Beppe Grillo a lanciare un affondo aventiniano. «Che ci rimaniamo a fare in Parlamento? A farci prendere per il culo, a sostenere un simulacro di democrazia mentre questi fanno un colpo di Stato? Rimarremo fin quando sarà possibile» per impedire il golpe «dell'eliminazione del Senato elettivo». Se «non ci lasceranno scelta, ce ne andremo».

Un'opzione estrema a cui si accompagna l'ipotesi di una manifestazione su cui Grillo lancia un sondaggio online. «Sei favorevole al Parlamento in piazza per denunciare il tentativo di colpo di Stato in atto? Vota». Una domanda rispetto alla quale è facile prevedere la risposta della Rete.

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