Il pericolo della rottura e i rapporti con l'Arabia

Rischioso lo sgarbo a Bibi. Con Riad in ballo affari miliardari

Il pericolo della rottura e i rapporti con l'Arabia
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Quattro mesi di presidenza Trump ci hanno insegnato che con The Donald alla Casa Bianca nessun annuncio è impossibile o improbabile. Anche quando sembra politicamente infondato o praticamente irrealizzabile. Quindi anche le voci sul possibile imminente riconoscimento dello Stato di Palestina da parte degli Stati Uniti vanno prese sul serio. Il problema è che le uniche buone ragioni per scommetterci non riguardano i palestinesi, ma i rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Il principe ereditario Bin Salman ha ricordato - anche recentemente - di non provare alcuna propensione per la causa palestinese, di non esser disposto a «perder tempo con il radicalismo» e di volersi interessare solo del proprio paese. Bin Salman tuttavia non può scordare alcune questioni fondamentali.

Prima fra tutte il ruolo di Custode dei luoghi santi dell'Islam riconosciuto all'Arabia Saudita. Un ruolo che non le permette d'ignorare completamente la sorte della Palestina, pena la perdita di autorità nel mondo musulmano. Non a caso il «riconoscimento» è sempre stata la precondizione richiesta da Riad per la normalizzazione dei rapporti con Israele e per l'adesione a quei Patti di Abramo che Trump considera, fin dal primo mandato, essenziali per la stabilità del Medioriente. A tutto ciò va aggiunto il fatto che le indiscrezioni sul possibile «riconoscimento» arrivano alla vigilia della trasferta saudita di Donald Trump atteso a Riad dopodomani assieme ad un nutrito stuolo di uomini d'affari. Intorno e accanto al Presidente ci saranno gli amministratori delegati di Black Rock, Palantir, Citigroup, Ibm, Qualcomm ed Alphabet ovvero i titani della finanza e della tecnologia americana. Nel corso degli incontri si discuteranno accordi su possibili investimenti sauditi negli Stati Uniti del valore di circa un trilione di dollari e contratti da 100 miliardi per l'acquisto di sistema di difesa americani.

Insomma quanto basta a far venire l'acquolina in bocca a The Donald e spingerlo a dimenticare non solo l'attuale impraticabilità di un riconoscimento della Palestina, ma anche la possibilità che la mossa venga interpretata come un colpo basso dall' «amico» e alleato Benjamin Netanyahu. L'impraticabilità è sicuramente il problema più rilevante. Riconoscere l'attuale Stato Palestinese significherebbe legittimare la ventennale presidenza dell'89enne Mahmoud Abbas (alias Abu Mazen) al potere da quando nel 2005 a Gaza e in Cisgiordania si votò per la prima e ultima volta. E al tempo stesso accettare - oltre al simulacro di un Autorità Palestinese squalificata dalle accuse di corruzione e priva di qualsiasi potere reale - anche l'incertezza territoriale di una Cisgiordania frammentata e lacerata dalla presenza di oltre 700 mila coloni israeliani.

In tutto ciò anche i rapporti tra Casa Bianca e governo israeliano hanno un peso. Un riconoscimento concesso prima dell'estromissione di Hamas da Gaza e senza una preventiva riforma dell'Autorità Palestinese, meglio se accompagnata da un'epurazione per mano americana dei suoi vertici, rappresenterebbe un vulnus inaccettabile per Netanyahu e il suo governo.

Un governo che probabilmente non sopravviverebbe alla reazione dei partiti della destra messianica pronti a rispondere all'affronto dell'alleato americano uscendo dall'esecutivo e abbandonando Netanyahu al proprio destino.

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