Il tempo logora le parole. Il loro colore vira su tinte più appassite e pallide. Anche quelle di un poeta possono essere così: sfibrate da non suggerire più emozioni, da non suscitare ricordi. Soprattutto se il poeta ha spremuto tutta la sua vena lirica per dare un senso al suo doloroso ricordo di una Roma sparita in un attimo. L'attimo in cui le bombe americane hanno raso al suolo il suo quartiere. Era il 19 luglio del 1943. L'allora diciassettenne Mario Di Maio ha visto, allora, crollare il suo mondo. E morire i suoi affetti. Poi c'è stata la guerra di Liberazione che Di Maio ha vissuto da partigiano. E ieri, alla vigilia della Festa nazionale, proprio lui, l'anziano combattente per la libertà di tutti, era atteso nella sede consiliare del IX Municipio di Roma per offrire non soltanto la sua testimonianza ma anche la sua poesia. La sede del Municipio si trova in un luogo simbolo della Capitale. Almeno di quella capitale, democratica e progressista, sognata e vagheggiata dalla sinistra negli anni Settanta. Stiamo parlando del «serpentone» di Corviale. Il parallelepipedo di cemento che copre una lunghezza di un chilometro esatto e contiene al suo interno 1200 appartamenti. In quello che è stato per tanti lustri uno dei luoghi simbolo della sinistra (ora feudo del grillismo) si è continuato negli anni a registrare eventi, incontri e manifestazioni per la Liberazione dal fascismo e dalla guerra. Però qualcosa ora è cambiato. La sala del municipio ieri mattina è rimasta vuota - come racconta Valentina Lupia nella sua cronaca per Rep: l'inserto on line della Repubblica - . Ad ascoltare le parole del vecchio partigiano non c'era nessuno a parte l'assessore alla scuola Maria Rosaria Porfido nelle vesti di padrona di casa. Né giovani, presumibilmente indaffarati e sicuramente distratti da altre urgenze, e nemmeno gli anziani, che lì in quella piccola città di cemento sono pur sempre la maggioranza. «Non ho usato il microfono - spiega alla cronista. Temevo l'eco di quella grande stanza vuota. Però non mi sono scoraggiato e ho letto lo stesso la mia poesia». Un gesto coraggioso. Come quello di Giovanni Mongiano che esattamente un anno fa al teatro del Popolo di Gallarate recito il suo monologo Improvvisazioni di un attore che legge davanti a una platea vuota. L'attore - poi applaudito dai media e dagli addetti ai lavori (teatrali) -, non si scoraggiò e salì lo stesso sul palco a beneficio, a quel punto, del solo tecnico delle luci. Oggi il poeta Mario Di Maio, 92 primavere portate con grazia e vigore, ha fatto la stessa esperienza. Ha capito così che anche le parole più belle, quelle della poesia, possono perdere il loro incanto. Oggi Di Maio (nessuna parentela con il leader pentastellato) sa che parlare di guerra, di distruzione, di sacrificio e di valori democratici conquistati al duro prezzo della lotta partigiana (o della guerra civile) non basta per riempire una sala o per catalizzare l'attenzione di un uditorio.
Insomma la Liberazione nell'ex quartiere «rosso» e proletario di Corviale non attira più nemmeno i pensionati. Forse si è finalmente realizzata quell'ambizione che un impopolare Ignazio Silone prefigurò il 30 ottobre del 1945 sulle pagine dell'Avanti! e che Mario Ajello ieri ha ricordato sul Messaggero.
«Dopo esserci liberati dal fascismo - scriveva il grande romanziere abruzzese sulle pagine del giornale socialista - dobbiamo ora cercare di superare anche l'antifascismo». Ecco. A Corviale quel «superamento» è diventato una realtà.
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