Piano per minare il governo. E Verdini resiste al Senato

Senza Ala a Palazzo Madama solo 153 sì Gentiloni rischia di fare la fine di Enrico Letta

Piano per minare il governo. E Verdini resiste al Senato

Roma - Il governo Gentiloni, perlomeno nei sogni di Renzi, avrebbe i giorni contati. Ma non sempre le strategie ardite diventano realtà. L'ex premier ritiene che la guerra nel Pd stia conducendo l'esecutivo in un pantano rischioso. Il piano di Renzi è aiutare la caduta. La prima trappola è scattata, ieri, in Senato con il voto sul decreto Milleproroghe. Il provvedimento ha ottenuto il via libera a Palazzo Madama con 153 voti favorevoli ma è stato necessario porre la fiducia per evitare sgambetti. La trappola era pronta: i senatori di Ala-Scelta Civica non hanno votato il Milleproroghe. L'asse Verdini-Renzi ha retto e punta a indebolire la maggioranza che sostiene il governo in Parlamento. È il primo passo per staccare la spina all'esecutivo. Il countdown è cominciato. Verdini diventa il braccio armato dell'ex premier per fare la guerra a Gentiloni. I numeri della maggioranza sono risicatissimi: il presidente del Consiglio quando nel mese di dicembre si era presentato in Senato con il nuovo esecutivo per ottenere la fiducia aveva ricevuto 169 voti: ieri i voti per il governo sono scesi a 153: 16 in meno che rischiano di mettere il premier quasi con le spalle al muro. La crisi è dietro l'angolo: basterebbe il passaggio all'opposizione di una decina di senatori centristi per chiudere la partita, spedendo dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella il capo del governo con le dimissioni in mano. In questo caso in soccorso di Renzi potrebbe arrivare Angelino Alfano, il ministro degli Esteri, che rischia di essere sfiduciato politicamente dal suo partito per essere troppo filorenziano. Gentiloni, giustamente, non sta partecipando alla guerra interna al Pd ma ne viene risucchiato. Rischia di essere un premier politicamente sempre più debole di quanto non lo fosse già al momento della nascita del suo governo. La prima vittima di una lotta di potere, tutta interna ai democratici. D'altronde, non è mai stata una novità come il piano di Renzi si sviluppi su due fronti: uno interno al partito per blindare la sua leadership, normalizzare la minoranza, l'altro sull'esecutivo targato Gentiloni per renderlo sempre meno autonomo, in modo da poter staccare la spina in ogni momento. Nel Pd, Renzi, ora, non cede: ieri il segretario ha passato la giornata al Nazareno, dove ha avuto una serie di incontri con il vicesegretario Lorenzo Guerini, il capogruppo alla Camera Ettore Rosato, Piero Fassino e Matteo Richetti. L'assemblea di domani, a meno di clamorosi colpi di scena, dovrebbe sancire l'addio tra il Pd e la truppa degli scissionisti. Renzi andrà avanti con il congresso che si trasformerà in un referendum sulla sua leadeship mentre la minoranza darà vita alla scissione con la nascita di una nuova formazione politica. Archiviato il discorso Pd, la strategia di Renzi si sposterà sul governo perché dopo il congresso ci sono le elezioni. L'ex premier non vuole aspettare il 2018 ma punta al voto anticipato. C'è un solo modo per portare il Paese al voto: rendere politicamente debole il governo di Paolo Gentiloni.

Affossare i provvedimenti nelle commissioni e nei voti parlamentari: utilizzare, insomma, la stessa strategia che Renzi mise in campo per isolare Enrico Letta. Un copione collaudato per piegare gli interessi degli Italiani a quelli del Rottamatore. Ma non sempre la storia si ripete.

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