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Pizza, 2CV ed esami show Così è nata la Santanchè

Nell'autobiografia della deputata di Forza Italia gli inizi difficili alla facoltà di Scienze politiche a Torino. «Io di destra in lotta coi docenti marxisti»

Pizza, 2CV ed esami show Così è nata la Santanchè

Ho scoperto di essere di destra in università, a Torino. Meglio: anarchica di destra. Un animo da legionaria senza legione. Avevo deciso di frequentare l'università per desiderio di rivincita. Dovevo farcela, dovevo laurearmi perché sarei stata la prima della famiglia Garnero. Mi ero iscritta a Scienze politiche, e non certo perché pensavo che avrei fatto politica (questa è tutta un'altra storia).

Scienze politiche mi sembrava un buon compromesso, un trampolino universale da cui poi lanciarmi nel campo del lavoro con una base buona e flessibile. Pensai fosse la cosa giusta per me. Ma non la pensava così mio padre, che sosteneva che l'azienda di famiglia era in espansione e sarebbe stata una gigantesca fesseria perdere anni a rincorrere la laurea lontano da casa dissipando tempo e denaro. Prima cercò di convincermi con i suoi ragionamenti pragmatici, poi sferrò un colpo basso. Non volevo lavorare in ditta e volevo andare all'università? Allora dovevo mollare lì la Citroën, che per me era come il cammello per il beduino, la mia identità, il mio marchio interiore ed esteriore, i miei capelli di Sansone. Gliela lasciai prendere. La libertà ha un prezzo, e mio padre me lo stava insegnando.

Ma riuscii a vincere ancora una volta. «Ah, sì? Vuoi fare l'università? Fammi il conto di quanto costa», chiese mio padre. Cominciai a elencare le spese per le tasse, per i libri, per vivere a Torino. Mi interruppe: «Io partecipo al cinquanta per cento il primo anno, poi te la vedrai tu». Dopo quel discorso per me incomprensibile, andai in camera mia, presi un borsone, misi dentro un po' di vestiti, qualche risparmio, ma soprattutto tanta paura per il senso di distacco che sentivo nel mio cuore. Salutai mia madre, che nulla diceva ma che mi capiva, lo sentivo. Sentivo che mi era vicina, forse perché nella sua vita, molte volte, si era trovata a interpretare una parte che sicuramente non era la sua. Mi diede un bacio (un bacio, un bacio a me, a Daniela!). Sentii la sua tenerezza riversarsi su di me, come mai mi era successo. Era il bacio che non mi aveva dato da bambina, uno di quei pochi che ricordo, e che mi fece provare, insieme alla gioia, il dolore per tutti quelli che non c'erano stati. Mi avviai verso la porta, rincuorata. Mentre stavo prendendo le chiavi della mia adorata 2CV apparve mio padre. «Eh no, Daniela, dove credi di andare con quella macchina? Non è più tua. Una che sceglie di fare l'università va con il treno. Ti mantengo al cinquanta per cento, e la macchina te la sogni». Mi spiegò la sua morale: «Ricordati sempre: chi paga comanda».

I primi mesi a Torino, con pochi soldi in tasca, furono durissimi. Non mi vergogno di raccontare che i miei pasti, a pranzo e a cena, erano spesso cappuccino e brioche o, quando andava alla grande, un trancio di pizza margherita. Intanto mi guardavo intorno per capire come avrei potuto organizzarmi e accettavo qualsiasi lavoro pur di andare avanti e guadagnare il mio spazio nella vita. Facevo la cameriera nei bar e nei ristoranti, infilavo collanine di perle, collaboravo con un'azienda di filati e fui anche tra le prime dog sitter. Iniziai a guadagnare più soldi di quelli necessari per mantenermi e compresi che ce l'avrei potuta fare. Se solo avessi superato la paura di dormire da sola...

Avevo sempre vissuto in casa con tutta la mia famiglia, dividevo la camera con mia sorella, vicino a quella di mio fratello, e dormire da sola mi faceva tremare. Dalla mia prima sera a Torino, nella mansarda che avevo deciso di affittare da sola, non riuscii a prendere sonno per mesi interi. Sentivo l'ascensore, sentivo i passi, sentivo tutti i rumori possibili. E avevo un timore panico. Stavo sveglia fino alle quattro, le cinque del mattino dicendo a me stessa che non dormire mi consentiva di studiare di notte e di lavorare di più durante il giorno. Poi, finalmente, il bar sotto casa apriva. Sapevo che da quel momento c'era qualcuno sveglio che faceva la guardia al palazzo, e un po' anche a me. Allora, solo allora chiudevo i libri e riuscivo ad andare a letto. Riuscire a dormire da sola è stata la mia prima sfida e il primo esame superato.

In università la mia ribellione acquistò un altro accento e io mi scoprii donna di destra. Di destra proprio perché era una parola impronunciabile, perché alla facoltà di Scienze politiche l'unico pensiero era quello di sinistra. Non dico fosse l'«unico ammesso», ma il fatto è che non ce n'era uno alternativo a quello di Marx, Trockij, Stalin, Lenin. E i compagni si scannavano tra di loro (la dialettica era tutta dentro il marxismo e le sue varianti) ma non al di fuori: non ce n'era bisogno, non c'era bisogno di emarginare un'identità politica di destra dato che non esisteva e non era neppure concepibile esistesse.

Costrinsi tutti professori, studenti, bidelli ad accorgersi di me e di quale inciampo costituivo per il corteo dei filistei di sinistra. Sono di destra, compagni: qualcosa da dire? Essere me stessa era, ed è, un imperativo etico, direi «danielesco», se questa parola esistesse. Del resto ho scoperto che sulla Treccani (il massimo!) esiste il neologismo «santanchiano»: «Santanchiano agg. Di Daniela Santanchè, esponente politica della destra». A proposito, grazie alla Treccani che, nel ramo, è come la Cassazione nell'ordinamento giuridico ho scoperto che Santanchè si scrive così, con la è con accento grave e non é con accento acuto, piccole cose che cambiano se non la vita almeno l'ortografia. Grazie, Treccani! Io direi, meglio, «destra anarchica», «anarchia di destra». Non sarà preciso ideologicamente ma si avvicina per approssimazione al mio sentire. Perché non mi piace neanche intrupparmi in collettivi, come vorrebbe una certa retorica di destra dell'«a noi!». Mi viene più spontaneo dire «a me!». Se poi quanti ragionano così si mettono insieme, e si ritrovano, allora si può essere in tanti, ma non si deve perdere di vista il proprio io, non si deve perdere di vista l'individuo, «quel singolo», come fece scrivere sulla sua tomba in opposizione a Hegel il grande danese Søren Kierkegaard.

I miei compagni di università sembravano fatti con lo stampino. Dovevo saltar fuori dall'acquario, anzi meglio rompere il cristallo a specchio per poveri pesciolini tropicali, dove tutti dovevamo nuotare dietro allo squalo-guida, ligi e scodinzolanti, in divisa nel corpo e nella mente. Si vestivano con i jeans e l'eskimo? E io allora andavo in giro con la gonnellina blu e il golfino, come una studentessa di college inglese. L'immagine del loro contrario, la schifezza più totale per i loro gusti da ciclostile. Cercavo di incarnare tutto ciò che essi combattevano. Più le ragazze si avvilivano con scarpe basse e maglioni larghi, più si alzavano i miei tacchi, aumentavano le scollature e diventavano sempre più attillate le magliette. Il mio eccesso nacque, insomma, lì: era una macchia di colore, uno zampillo di giallo e blu, che marcava la differenza. Non si poteva non notare. Era una battaglia quotidiana: dovevo essere me stessa e sconfiggerli con la mia diversità forte e serena.

Anche gli esami diventarono degli show. A ogni appello, appena mi sedevo, mi accorgevo che alle mie spalle si era radunato un vero e proprio pubblico. L'interrogazione era in realtà una lotta fra me e il professore che in qualunque modo, lo si sapeva, avrebbe tentato di mandarmi a casa. E io che ne ero perfettamente cosciente non studiavo solo per dovere, ma con l'obiettivo di farmi valere, di resistere e alla fine di piegare quel docente di «regime» rimasto appiccicato alla barba di Marx. «C'è la Garnero che dà gli esami, andiamola a vedere!», era il passaparola fra gli studenti non allineati, ma più timidi, che mi vedevano come un baluardo dell'opposizione. All'università entravo con il Giornale, che per loro, autoelettisi intellighenzia (ma de che? ah già, di sinistra), rappresentava il male assoluto, la feccia della cultura.

Ho rischiato la rissa diverse volte. Quella studentessa alternativa che aveva paura di dormire da sola non aveva paura di affrontare i compagni. Li sfidavo, li facevo impazzire. Ero una rarità, una mosca bianca. Essere di destra era eccitante. Fu una sfida formativa potente. Essere combattivi, diversi, porsi in una condizione di profonda alternativa richiedeva il massimo impegno: dovevo essere impeccabile. Per vincere avrei dovuto studiare, studiare, studiare e infatti non sono mai riusciti a bocciarmi a un esame.

Compresi, però, che essere bravi non è sempre un vantaggio: la mia vita sarebbe stata molto difficile e il prezzo da pagare alto. Cercai quindi di occultare il mio essere brava e capace per apparire per quella che non ero. Se la gente si fosse concentrata non sulle mie qualità intellettive ma sulla «carrozzeria» forse sarebbe stato più facile affermarmi, arrivare al mio scopo in qualsiasi campo dominato dagli uomini. Si chiama dissimulazione, in guerra è il cosiddetto «diversivo». Se gli altri si concentrano su tacchi e tette, ti lasciano libere intere autostrade per affermare il tuo pensiero. Li cogli impreparati. Ho cominciato così un'azione di depistaggio sfruttando uno dei grandi vantaggi di essere donna. Se dovessi scegliere come rinascere, non ho alcun dubbio: vorrei rinascere donna. Donna nel corpo, ma uomo nella testa. Insomma, un uomo vestito da donna.

Francamente donna, tendenza santanchiana, direbbe la Treccani.

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