Cronache

Playboy ritrova se stesso e la libertà: viva i nudi

La storica rivista fa retromarcia. A meno di un anno spariscono i veli e (ri)cadono i tabù

Playboy ritrova se stesso e la libertà: viva i nudi

Tremate, le tette son tornate. Per fortuna c'è Playboy che torna indietro perché il mondo non è andato così avanti. Le tette tornano, prepotenti, sulla copertina della storica rivista paladina delle libertà civili, santuario della rivoluzione sessuale, piazza di scorribande erotiche e intellettuali. Le ministre svedesi, sedicenti «femministe» in segno di protesta contro Trump, sfilano ossequiose davanti al presidente iraniano Rohani bardate di hijab, chador e cappottoni lunghi. A Sanremo si polemizza per la sfacciataggine di una donna che pretende di affrontare un argomento serio mostrando le cosce, spudorata. Invece Playboy, a distanza di appena un anno dal primo numero naked-free, ritorna sui propri passi e tuona: «Naked is normal», la nudità è normale. Risale a marzo dello scorso anno il primo numero a zero nudo nella convinzione che contenuti di qualità e grafica rinnovata, senza immagini sessualmente esplicite, avrebbero tirato su le vendite nell'epoca del porno gratuito online.

Rinunciare al nudo «è stato un grosso errore - ammette il 25enne Cooper Hefner, direttore creativo e figlio del fondatore Hugh - oggi ci riprendiamo la nostra identità e rivendichiamo ciò che siamo». Siamo nudi alla nascita e siamo nudi quando godiamo sotto le lenzuola e ancora nudi quando trasmettiamo la vita, la nudità fa parte di noi, è condizione elementare della nostra esistenza, delle 193 specie di scimmie l'essere umano è l'unica «scimmia nuda», senza pelo, canta Gabbani, maestro di levità. La nudità, anche quando è violenta, infoiata e incestuosa, è mezzo di ricerca, spazio di indagine, fonte di ispirazione. Chi si vergogna di un corpo nudo? In tanti, in troppi, ancora oggi la nudità fa paura, desta imbarazzo, scuote i benpensanti che vorrebbero coprire le gambe dei tavoli, e non solo quelle.

Se vuoi essere presa sul serio devi coprirti, se vuoi ospitare a Palazzo Chigi il presidente iraniano le statue sconce vanno censurate. Sin dalle origini Playboy si ribella al tabù, ci sbatte in faccia il finto moralismo, la nostra ridicola ipocrisia, così sulle pagine della rivista americana si mischiano orgasmi e premi Nobel, schiene à la Ingres e dotte dispute filosofiche. Un esempio? Il numero speciale del Natale 1968 pubblica quattro racconti di Alberto Moravia, un simposio sulla creatività con Truman Capote, Allen Ginsberg, Arthur e Henry Miller, George Simenon, la prima traduzione inglese di una poesia di Goethe e un pezzo di Marshall McLuhan sull'immagine. Negli anni Playboy intervista Martin Luther King, John Lennon, Malcolm X, Vladimir Nabokov e il devoto Jimmy Carter che ammette di «aver guardato a molte donne con lussuria». Contaminare i generi, sacro e profano, dionisiaco e apollineo, le curve della conturbante Pamela Anderson sono il perfetto contraltare allo spessore beat di Norman Mailer, «la vagina è più sacra del pene», racconta la giovane rapper Azealia Banks confidando che a lei piace scopare «ma ho troppa paura di prendermi herpes o altra merda».

Playboy è tutto questo, angelo e demone esattamente come ciascuno di noi, giù le mani dal coniglietto col papillon.

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