Una sfida impari. È quella che sostengono le piccole e medie imprese italiane contro i colossi del web dal punto di vista fiscale. Questa volta, però, non si tratta solo della possibilità per i giganti come Google, Apple, Facebook e Microsoft di sfruttare la «residenza» in Paesi europei con tassazione minore dirottando all'estero i ricavi conseguiti nel nostro Paese sottoforma di contratto di fornitura di servizi tra sede centrale e filiale italiana. La impar condicio, rivela l'Ufficio studi della Cgia di Mestre, è proprio nel carico fiscale complessivo: se le pmi versano il 59,1% dei profitti, le multinazionali del web presenti in Italia, o meglio le controllate di questi giganti economici ubicate nel nostro Paese, registrano un tax rate del 33,1 per cento. Il confronto, ha precisato il coordinatore dell'Ufficio studi, Paolo Zabeo si basa su «dati desunti da fonti diverse». Il dato italiano, infatti, proviene dal rapporto Doing business della Banca mondiale ed è riferito al 2018 così come a due anni fa si riferisce l'analisi dell'Area studi Mediobanca intitolata I giganti del websoft. Prescindendo dalla premessa, ha aggiunto Zabeo, «è comunque verosimile ritenere che sulle piccole imprese il carico fiscale sia quasi doppio rispetto a quello che grava sui giganti tecnologici presenti in Italia: un'ingiustizia che grida vendetta».
Ma perché le controllate italiane delle principali multinazionali del web possono beneficiare di un tax rate del 33,1 per cento? La metà dell'utile ante imposte, come detto, è tassato in Paesi a fiscalità agevolata che procura un risparmio fiscale che, nel periodo 2014-2018, ha sfiorato complessivamente i 50 miliardi di euro. Tuttavia, non sono solo i giganti stranieri del web a sfruttare la fiscalità di vantaggio concessa da molti Paesi. Alcuni grandi player italiani, da anni hanno trasferito la sede legale principale, o di una consociata, all'estero. Tra gli esempi più illustri spiccano quelli di Fca e di Ferrero.
Le aziende che costituiscono la spina dorsale del nostro sistema produttivo si trovano così di fronte a una doppia concorrenza. In casa quella delle multinazionali del web, meno tartassate e alle quali devono adeguare le proprie politiche commerciali. All'estero quelle di imprese più libere dal gravame delle imposte. Solo la Francia (con il 60,7%), infatti, registra una pressione fiscale sui profitti delle imprese superiore a quella italiana, contro una media dei 19 Paesi che utilizzano la moneta unica pari al 42,8 per cento. Un dato, quest'ultimo, di oltre 16 punti percentuali inferiore al dato medio presente in Italia.
Oltre ad avere la pressione fiscale sulle imprese tra le più elevate d'Europa, l'Italia, evidenzia ancora la Cgia, è il Paese, assieme al Portogallo, dove pagare le tasse è più difficile. Sono, infatti, necessari 30 giorni all'anno (pari a 238 ore) per completare le dichiarazioni dei redditi e per effettuare il pagamento. In Francia per espletare queste incombenze sono necessari solo 17 giorni, mentre la media dell'area euro è di 18 giorni.
«Entro la fine di quest'anno il governo dovrà trovare altri 20 miliardi di euro per scongiurare che dal 2021 si registri un ritocco all'insù sia
dell'Iva che delle accise sui carburanti: sarà molto difficile recuperare altre risorse per ridurre in misura altrettanto significativa le tasse su famiglie e imprese», ha concluso il segretario della Cgia, Renato Mason.
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