Politica

Il politicamente (s)corretto di Lilli

Capita sempre più di frequente, nei salotti dei talk show televisivi, ma anche sulle pagine dei quotidiani, di doversi sorbire sermoni a proposito di quanto sia scaduto il livello del dibattito politico

Il politicamente (s)corretto di Lilli

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Chi è senza peccato scagli il primo colpo (basso). Capita sempre più di frequente, nei salotti dei talk show televisivi, ma anche sulle pagine dei quotidiani, di doversi sorbire sermoni a proposito di quanto sia scaduto il livello del dibattito politico, ridotto a rissa e basato sull'insulto come unica argomentazione. Quando sono gli stessi giornalisti ad agire secondo tale logica, il danno è maggiore perché rende molto meno credibili gli alfieri del fair play, finché non tocca a loro dare l'esempio. Insomma, il politicamente corretto non può essere soltanto uno slogan da invocare secondo convenienza. Se esistesse invece la categoria del giornalisticamente corretto, lo scontro andato in onda (in differita) tra Lilli Gruber e Mario Giordano sarebbe istruttivo per tanti giovani aspiranti alla professione. I fatti: la conduttrice di Otto e mezzo, presentando il suo libro sabato scorso a Padova, si è lasciata andare all'affermazione «per me Mario Giordano non è un collega, perché ho un grande rispetto del giornalismo e di chi lo fa in modo serio...», e si è esibita in un'imitazione-caricatura per irridere l'ex direttore del Giornale. «Se faccio un verso, hai capito chi è questo Giordano...». Quest'ultimo, durante la puntata di Fuori dal Coro, ha replicato: «Ebbene sì, cara Lilli Gruber, ho una brutta voce. Che ci vogliamo fare? È un mio difetto fisico: ti chiedo scusa, vi chiedo scusa». Aggiungendo con ironia: «Se poi cara Lilli per essere tuoi colleghi bisogna partecipare alle riunioni dei ricconi del Bilderberg e farsi vedere sugli yacht con De Benedetti, ebbene io sono orgoglioso di non essere tuo collega perché al Bildeberg non ci vado e sullo yacht con De Benedetti neppure. Ho questa brutta voce e la uso per urlare e cercare di risolvere qualche problema degli italiani», ha rivendicato Giordano. Nei duelli mediatici e dialettici ognuno è libero di prendere le difese di chi preferisce o gli sta più simpatico, ci mancherebbe. Il punto però è un altro. Senza scomodare i princìpi deontologici, secondo cui comunque i giornalisti «sono tenuti a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi», ancora una volta a stridere è la contraddizione in termini di chi dice di lottare contro i pregiudizi e il body shaming, e poi casca nella trappola dell'offesa sul piano personale. Screditare chi la pensa diversamente per educarne cento. Nel caso specifico, da Lilli Gruber - per qualcuno una maestra di eleganza, per altri una «maestrina» con la penna rossa - non ci si aspettava una caduta di stile di questo genere.

Eppure, per avere una dimostrazione pratica di cosa significhi dividere con l'accetta la ragione dal torto, i buoni dai cattivi, chi merita di essere definito «collega» da chi può essere deriso in contumacia, allora basta accendere la tv e guardarsi una puntata a caso di Otto e mezzo.

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