Il poliziotto figlio di Cristo Re che canta per i colleghi morti

Allevato dalle Piccole Ancelle, le allietava con "Rose rosse". A scoprirne il talento fu un carabiniere. "Che emozione esibirmi al funerale del mio capo Manganelli"

Il poliziotto figlio di Cristo Re che canta per i colleghi morti

Ha cominciato con «rose rosse per te / ho comprato stasera / e il tuo cuore lo sa / cosa voglio da te». L'età non era la più adatta, 11 anni. E neppure la destinataria delle strofe, la madre superiora delle Piccole Ancelle di Cristo Re, che lo faceva salire in piedi su un tavolo e lo spronava a esibirsi nella canzone di Massimo Ranieri per la gioia delle consorelle. Una madre in qualche modo adottiva, suor Olimpia Balsamo: quella biologica aveva affidato suo figlio all'istituto religioso di Castellammare di Stabia ad appena 18 mesi di vita. Da allora ne ha fatta di strada Paolo Restiotto, nato a Napoli l'11 marzo 1958, e non solo perché è assistente capo della Polstrada presso il distaccamento di Legnago (Verona). Da otto anni l'ex Paolino di Rosse rosse è diventato il tenore ufficioso, se non proprio ufficiale, della Polizia di Stato. È toccato a lui l'onore, di cui avrebbe fatto volentieri a meno, di accompagnare a sepoltura il Capo, quello suo e di tutti gli agenti, il prefetto Antonio Manganelli, domato nel 2013, a soli 62 anni, da un tumore più carogna di una cosca mafiosa, che nel giro di 20 mesi non gli ha lasciato scampo: il sabato a Roma, sulle note della Preghiera del poliziotto di Bizzari-Marcucci e dell' Ave Maria di Gounod, intonate al funerale di Stato nella basilica michelangiolesca di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, e il martedì nel Duomo di Avellino, città natale del defunto capo della Polizia. E sempre Restiotto è stato poi chiamato a cantare alla messa di suffragio nel primo anniversario della morte di Manganelli, e anche nel decennale della scomparsa del predecessore Fernando Masone. E ancora a lui è spettato commemorare il prefetto Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto che aveva indagato sugli attentati ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; l'ispettore capo Filippo Raciti, rimasto ucciso durante gli scontri con gli ultras dopo un derby di calcio Catania-Palermo; l'appuntato Antonio Niedda, motociclista della Stradale freddato nel 1975 dal brigatista rosso Carlo Picchiura; e tanti altri colleghi caduti nell'adempimento del dovere, ben cinque dei quali trucidati nella provincia in cui egli stesso presta servizio: Ulderico Biondani, Vincenzo Bencivenga, Giuseppe Cimarrusti e i fratelli Massimiliano e Davide Turazza.

Prima di diventare poliziotto e tenore, Restiotto, una moglie impiegata e due figlie che frequentano l'università, ha dovuto affrontare una vita piuttosto dura. La madre Irma, nativa di Ghirano di Prata (Pordenone), seguì a Napoli una famiglia di commercianti che l'aveva assunta come colf. Senonché, nei suoi periodici ritorni in Friuli, rimase incinta tre volte. «Io sono l'ultimogenito e non ho mai capito se mio padre, che non ho conosciuto, sia lo stesso dei miei fratelli. La mamma s'è portata questo segreto nella tomba». Poco importa, perché la sorte del piccolo Paolo apparve segnata fin dalla nascita: se una donna è impegnata tutto il giorno fuori casa come cameriera e ha già due bambini da tirar su, fatica ad accudirne un terzo. Non che lui gliene faccia una colpa: «Sono cresciuto a pane e amore di Dio, ho avuto dalle suore una formazione serena, ringrazio il Padreterno di essere come sono».

A 10 anni le suore lo trasferirono nel loro istituto di Portici, dove rimase fino ai 13. Dopodiché la madre lo riprese con sé. «D'estate lei e il suo compagno mi mandavano a lavorare come garzone nei bar e nelle salumerie di Napoli. I soldi che guadagnavo dovevo consegnarli in casa fino all'ultimo spicciolo. Decisi di emigrare come carpentiere al Nord. Ho lavorato a Torino e Pordenone. Nella città friulana costruivo gru gigantesche per i Paesi arabi. Arrivavano gli agenti motociclisti della Stradale addetti ai trasporti eccezionali e io restavo estasiato ad ammirarli».

Galeotta fu la Guzzi 500.

«L'ho dovuta usare in servizio per tre lustri, ma avevo una fifa blu della moto. Nel 1983 fui ammesso a frequentare il Centro di addestramento a Cesena. Dopo sei mesi ero agente della Polstrada».

Invece la passione per il canto quand'è nata?

«Mi esibivo già all'età di 7 anni. Canzonette. Seguivo Sanremo, Festivalbar, Cantagiro e Hit parade alla radio, condotta da Lelio Luttazzi. Alla Festa di Piedigrotta i miei idoli erano Sergio Bruni, Giacomo Rondinella e Mirna Doris, alla quale da piccolo di bottega portavo la spesa a casa».

Chi fu il primo in Polizia ad accorgersi del suo talento?

«Qui viene il bello: fu un carabiniere. Il capitano Francesco Provvidenza, comandante della Compagnia di Legnago. Il quale mi chiamò a cantare in divisa alla messa di precetto pasquale dell'Arma. Luigi Merolla, che all'epoca era questore di Verona e in seguito avrebbe ricoperto lo stesso incarico a Bologna e a Napoli, mi mandò a chiamare: “Ma come? Lei canta per i carabinieri e non per i poliziotti?”. Merolla è un melomane, ha una cultura musicale impressionante. E così mi fece esordire alla festa della Polizia davanti all'Arena».

Con quale brano?

« La preghiera del poliziotto. Quando fu trasferito a Napoli, Merolla mi chiamò a esibirmi al teatro San Carlo. Che emozione cantare Nessun dorma nella mia città davanti a 1.600 persone! C'erano anche il figlio di Eduardo De Filippo, Luigi, e il maestro Nicola Piovani, vincitore dell'Oscar per le musiche del film La vita è bella».

Dalla Preghiera del poliziotto alla Turandot di Puccini è un bel salto.

«Un amico mi chiamò ad allietare il suo matrimonio. Fra gli invitati c'era Ciricino Micheletto, titolare della cattedra di organo e canto gregoriano al Conservatorio Dall'Abaco di Verona. Alla fine mi prese in disparte: “Ma nel suo repertorio ha solo questa robetta?”».

Che robetta era?

«Il Panis angelicus di Franck, l' Ombra mai fu dal Serse di Händel e l' Ave Maria di Schubert».

Chiamala robetta.

«Micheletto m'indirizzò a due cantanti lirici, Giuseppe Scandola, baritono, che è stato per tante stagioni Amonasro nell' Aida in Arena, e la moglie Maria Del Fante, mezzosoprano pianista. Ho studiato otto anni con loro. Quattro ore di lezione a settimana. Avrebbero potuto farsi strapagare e invece mi sono venuti incontro con grande generosità. Lo devo ai due coniugi se sono diventato protagonista in molti teatri: Alfredo Germont nella Traviata, Pinkerton nella Madama Butterfly, Rodolfo nella Bohème, il Duca di Mantova nel Rigoletto».

Torniamo al suo ruolo di tenore della Polizia.

«Tutti i 29 settembre, festa di San Michele arcangelo, nostro patrono, tocca a me girare le città d'Italia dove a rotazione si celebra la ricorrenza. Il prefetto Manganelli era il primo a complimentarsi con me e con il quintetto di fiati della Polizia diretto dal maestro Roberto Granata, un ufficiale. Mi batteva una mano sulla spalla: “Bravo, Restiotto, bravo!”. Un gran signore».

Dev'essere stata dura cantare al suo funerale.

«Non me ne parli. Tre giorni prima ho ricevuto una telefonata da Granata: “Paolo, ti hanno scelto per le esequie del Capo”. Guardi, ancora mi vengono i brividi a pensarci». (Mostra la cute dell'avambraccio raggricciata). «Non me lo meritavo. Rendergli l'estremo omaggio! Alle prove ho trovato Fabrizio Frizzi, incaricato delle letture. “Tu non hai idea di quali e quanti tenori si siano offerti al posto tuo”, mi ha confidato Granata».

E alla presenza del suo successore, il prefetto Alessandro Pansa, s'è mai esibito?

«Due volte. La prima a Roma. La seconda nella scuola di polizia a Peschiera del Garda. Finita La preghiera del poliziotto, s'è avvicinato: “Non posso dire che sia in assoluto il mio brano preferito, ma come lo canti tu è da pelle d'oca”. La stessa cosa che Giuseppe Marcucci, uno dei due autori, mi ha detto in San Giusto a Trieste: “Non l'avevo mai sentita cantare così”».

Non teme che le venga un groppo alla gola?

«Mi scendono soltanto le lacrime. Ma il fiato non è mai venuto meno. Se ne stupì anche l'allora presidente del Senato, Renato Schifani, a una festa della Polizia. Al termine mi fece cenno con una mano di raggiungerlo e mi domandò a bruciapelo: “Ma da dove la tira fuori quella voce?”. Signor presidente, è un dono di Dio, gli risposi. Perché è davvero così».

Non è mai colto dal panico sull'altare o sul palcoscenico?

«Guai se non ci fosse tensione. Mi hanno raccontato che quando il grande Franco Corelli furoreggiava in Arena, da dietro le quinte dovevano spingerlo letteralmente in scena, altrimenti di suo non sarebbe mai uscito».

Presumo che sia ancora più difficile occuparsi dei morti sulle strade.

«Un tempo gli incidenti con vittime erano il pane quotidiano. Da quando sono nate le mie figlie, mi manca il coraggio di affrontarli».

Quanti ne ha rilevati?

«E chi lo sa? Almeno un migliaio».

Il più brutto?

«Un tamponamento a catena con due automobilisti carbonizzati sulla A4, nel tratto Sommacampagna-Peschiera. L'odore della carne bruciata si avverte fin da lontano, non riesci più a dimenticarlo. E poi la tragica fine di Marco Donat Cattin, l'ex terrorista di Prima linea, figlio del defunto ministro democristiano, falciato vicino al casello di Verona Sud. Era sceso dalla sua vettura per segnalare un incidente. Fu trascinato per 150 metri».

A quel punto, lei che può fare? Recita un requiem?

«Anche. Forse sono l'unico poliziotto che ha mandato a chiamare il parroco di Zevio affinché desse la benedizione a un motociclista di 45 anni morto andando a sbattere contro un'auto. Non ho voluto che l'ambulanza partisse prima di quel gesto di pietà».

Le è capitato di disperarsi sul luogo di una sciagura?

«M'è successo di piangere, sì, però senza farmi vedere. In me tutto è cambiato dopo un pellegrinaggio a Lourdes. Ci sono andato per cinque anni, come barelliere. Una sorella dell'Unitalsi mi istigò: “Dài, Paolo, canta qualcosa”. Lì, davanti alla statua della Madonna nella Grotta di Massabielle, mi uscì spontanea dal petto la Salve Regina in latino. Un custode si fiondò verso di me per zittirmi, ma, dopo pochi metri, rallentò e si fermò. Malati e fedeli di ogni nazionalità si erano uniti nel canto. Fu la mia prima esibizione da solo. Ma non ero solo».

Perché ha scelto la Polstrada anziché le volanti?

«Perché qui ho la fortuna di fermare 10 delinquenti e 10 santi, mentre i miei colleghi sono costretti a confrontarsi solo con il malaffare».

Però le tocca avvisare le famiglie dei morti negli incidenti.

«Una mattina mi mandano dai familiari di un ragazzo di 25 anni uscito di casa poche ore prima per andare al lavoro e deceduto in uno scontro in autostrada. Mi aprì la porta sua moglie: stava allattando il figlio. Il resto non si può dire. Preferisco tenerlo per me».

Che cosa le piace del suo lavoro?

«Svegliarmi la mattina e poter essere utile a qualcuno».

È mai stato multato per infrazioni al codice della strada?

«Una volta, non ero ancora poliziotto, per uno pneumatico liscio. Poi due volte dai vigili urbani: avevo superato di 3 e 7 chilometri i limiti di velocità».

Prima di Restiotto, chi era il tenore della Polizia?

«Venivano chiamati cantanti professionisti esterni. Io almeno lo faccio gratis. O meglio, in orario di servizio. Il 2 gennaio 2016 andrò in pensione. Ma sarò ben lieto di continuare, se vorranno convocarmi».

Le piacerebbe esibirsi davanti a qualcuno?

«Davanti al Papa. Ma non ci penso nemmeno, perché so che non accadrà mai. Per me rappresenta Cristo in terra. Per cui, dopo aver cantato, direi al Signore: adesso fammi pure morire, ho avuto tutto».

La questione mi pare prematura. Al suo funerale che aria vorrebbe le dedicassero?

« Preghiera di Francesco Paolo Tosti».

Non la conosco.

(Me la canta). «Alla mente confusa / di dubbio e di dolore / soccorri, o mio Signore, / col raggio della fé. / Sollevala dal peso / che la declina al fango: / a te sospiro e piango, / mi raccomando a te».

Ma cantata da chi?

«Non ha importanza. Un Restiotto vale l'altro».

(764. Continua)

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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