Profumo, dalle banche alle armi sotto l'ala dell'ex Pci

La parabola dell'interlocutore privilegiato della finanza rossa

Profumo, dalle banche alle armi sotto l'ala dell'ex Pci
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Il partito degli affari e gli affari di partito, stretti in un viluppo trentennale di cui ormai è difficile afferrare il bandolo. Così per capire il senso di quanto sta emergendo sul patto scellerato tra l'ex comunista Massimo D'Alema e l'ex banchiere Alessandro Profumo (foto) per trasformare in una macchina da tangenti la vendita di armi di Stato alla Colombia bisogna tornare indietro al 1999, quando D'Alema - primo uomo di Botteghe Oscure approdato ai vertici delle istituzioni - stava a Palazzo Chigi. Permanenza breve, un anno e mezzo, ma sufficiente a lanciare la più disastrosa delle privatizzazioni italiane, la cessione di Telecom ai «capitani coraggiosi» guidati da Roberto Colaninno. Di quell'affare D'Alema fu l'artefice, con modalità tali da indurre uno che la sapeva lunga come Guido Rossi a un giudizio fulminante: «Palazzo Chigi è l'unica merchant bank dove non si parla inglese». Da allora è stato un continuo, un arrembaggio confuso e maldestro alla nuova passione degli eredi di Togliatti e Berlinguer, lanciati con l'entusiasmo dei neofit all'assalto della finanza privata e soprattutto pubblica. Ed è di una eleganza quasi geometrica che adesso a finire nei pasticci insieme a D'Alema sia uno degli uomini che più hanno incarnato la nuova alleanza tra capitalismo (il solito capitalismo italiano, familistico e pasticcione) e post-comunisti: ovvero Alessandro Profumo, quattro quarti di know bocconiano e tessera del Pd in tasca. Che Profumo fosse uno dei «loro», D'Alema e compagni lo avevano intuito già ai tempi in cui il manager stava alla testa del Credito Italiano e poi di Unicredit. Il primo outing ufficiale lo fece per interposta moglie, presentandosi nel 2007 a votare alle primarie del Pd in compagnia della moglie Sabina Ratti, che era candidata nella lista «Noi con Rosy Bindi». Le aspirazioni della Bindi vengono travolte dalla vittoria di Walter Veltroni; Profumo si ricolloca in fretta, diventando l'interlocutore privilegiato della segreteria Pd nel mondo della finanza. È in quegli anni che si cementa un rapporto che permette a Profumo di sopravvivere professionalmente anche dopo la cacciata da Unicredit, dove gli azionisti chiedono la sua testa e lui accetta di dimettersi con una buonuscita da quaranta milioni di euro. Due milioni, annuncia lady Profumo in sella alla sua Ducati rossa, andranno alla Caritas. Un altro si godrebbe la pensione, Profumo no. Il suo legame col Pd è così forte che nel 2011 circola il suo nome per la segreteria del partito, lui declina, D'Alema incorona la vittoria di Bersani, Profumo nel frattempo è tornato all'amore di sempre, la banca: ma in una nuova versione, quella dove la affidabilità anche politica è tutto. A marzo entra nel board di Srebank, banca di Stato russa, ma incombe la svolta vera: c'è da salvare la più antica banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena, portata sull'orlo del fallimento dalla gestione del piddino Giuseppe Mussari. Per cambiare rotta il governo a guida Pd manda un altro del Pd: Alessandro Profumo. Cambia così poco che anche Profumo, dopo Mussari, si ritrova rinviato a giudizio per falso in bilancio.

Resta lì quattro anni, poi a salvarlo dalla pensione interviene un altro governo a guida Pd, che nel 2017 lo manda a amministrare Finmeccanica, il colosso dell'industria bellica italiana, che di lì a poco cambia nome e diventa Leonardo.

E lì, tornano utili i rapporti col vecchio compagno di partito Massimo D'Alema: con l'incarico «informale» di mediare l'appalto (e relativa tangente, dicono ora i pm) col governo colombiano. Di quell'incarico, da Profumo sempre negato, in Leonardo si chiacchierava da un pezzo, ma nessuno capiva a cosa dovesse servire. Con l'uscita allo scoperto degli inquirenti napoletani, qualcosa si comincia a capire.

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