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Lo psicodramma Pd: "Così si va a sbattere"

I dem divisi tra fedeltà a Giuseppi e la voglia di mollarlo. Il siluro di Gentiloni

Lo psicodramma Pd: "Così si va a sbattere"

La confusione regna sovrana, nel giorno clou (l'ennesimo) di una crisi in cui Conte e i giallorossi si dibattono come mosche in una ragnatela. E a sera Dario Franceschini, capo-delegazione dem nel governo, convoca un vertice ristretto dei ministri con il segretario per dare l'allarme: la situazione ci sta scappando di mano, così si va a sbattere.

Per tutta la giornata, il Pd è stato vittima della disinformazia di Palazzo Chigi tanto quanto i cronisti e i cittadini interessati alla situazione politica. Sottoposti ad un bombardamento di messaggi contrapposti: ho i numeri in Senato, salgo al Colle a riferire, salgo al Colle a dimettermi, i numeri non ci sono, non salgo al Colle e così via.

Alla fine, a dettare la linea al premier non sono stati certo i dem, ma i Cinque Stelle, che gli hanno imposto di dimettersi, stamattina, per salvare la faccia e la carriera del Guardasigilli Bonafede, che rischiava un clamoroso capitombolo in aula da cui non si sarebbe rialzato, e certo non più come ministro della Giustizia. A questo, forse per l'antico affetto e comune sentire che lo lega a «Fofò» Bonafede, Conte si è piegato, dopo una giornata passata invece a liquidare come inaccettabili le proposte che gli arrivavano dai sempre più affannati dem.

Il segretario Zingaretti e i suoi, assestati sulla linea «o Conte - senza Renzi - o morte» (intesa come elezioni) si erano ritrovati in minoranza nei gruppi parlamentari, che di voto non vogliono sentir neppure parlare, e scavalcati dall'ala riformista e ex Margherita che insiste per ricucire i rapporti con Renzi, e che mette in conto, sia pur non esplicitamente, la eventuale dipartita del premier. Di buon mattino Bettini ha tentato di salvare la frittata proponendo un percorso tortuoso con l'obiettivo di rassicurare Conte che non verrà mollato: andare in aula su Bonafede, dichiarando di essere pronto a dimettersi subito dopo perché «comunque c'è bisogno di costruire un nuovo governo», altrimenti non arriveranno neppure nuovi voti, né ritorneranno quelli di Renzi. Nuovo governo, ma vecchio premier, perché Conte - giura Bettini - «è imprescindibile». L'imprescindibile, però, ha risposto picche: in aula, a farsi affondare assieme al pur caro Alfonso, promettendo di dimettersi, non ci sarebbe andato.

Nelle file dem per tutto il giorno sale la preoccupazione, e si levano voci sempre più discordanti, in una vera e propria cacofonia. L'esempio più clamoroso: il coordinatore dei segretari provinciali dell'Emilia, tal Costa, dichiara perentorio che mai più si apriranno le porte della maggioranza al traditore Renzi. E poco dopo viene smentito dal segretario regionale Calvano, che spiega che non devono esistere «veti» contro nessuno. Un caos. Zingaretti cerca di garantire al premier lealtà perinde ac cadaver, ma passando per un Conte ter «chiaramente europeista e sostenuto da una base parlamentare ampia». «Se non sta in piedi il Conte ter allargato, con Renzi e qualche «responsabile», noi non teniamo più», prevede preoccupato un dirigente di lungo corso. «Il Pd esplode in mille pezzi, tra chi vuole il governo Ursula e chi vuole ricucire con Renzi, chi vuole un esecutivo istituzionale e chi preferisce andare a elezioni anticipate». E tra «chi prova a resistere su Conte e chi lo sta accompagnando contro il muro per poi uscirne, che so, con un governo Franceschini».

Intanto, da Bruxelles, arriva un monito per nulla rassicurante - per Conte - dall'ex premier Paolo Gentiloni, uomo chiave della Ue, che più volte ha severamente ammonito Conte sul Recovery Plan: «Il Pd cerca di tenere in piedi la baracca.

Ma serve qualità, perché se ci si limita a tenere in piedi la baracca se la qualità non è adeguata, poi se ne paga il prezzo».

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