Bruxelles sotto attacco

La psicosi del terrorismo piomba sulle primarie Usa

Trump: «Appena insediato porterò l'ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, che ne è la vera capitale»

La psicosi del terrorismo piomba sulle primarie Usa

L e bombe di Bruxelles sono deflagrate sulla campagna elettorale americana costringendo tutti i candidati a tornare sulla questione della sicurezza. Il risultato è che le voci si sono fatte più ringhiose e davanti all'Aipac, che rappresenta la comunità ebraica americana, si è assistito a una gara muscolare di tutti i candidati democratici e repubblicani per mostrare propositi draconiani nel distruggere l'estremismo islamico, castigare l'Iran minaccioso e inadempiente e proteggere Israele, capovolgendo la politica di Barak Obama.Donald Trump si è spinto molto in là: «Porterò immediatamente l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, vera capitale dello Stato ebraico e il giorno dopo essermi insediato riceverò subito il primo ministro israeliano».

La Clinton non è stata da meno, quanto a grinta e, a seguire, sono venute le dichiarazioni di guerra dei repubblicani Ted Cruz e John Kasich che cercano di intralciare Trump nella caccia al delegato. Fra i due candidati anti-Trump, soltanto Ted Cruz ha ancora delle chance e può essere considerato in corsa dopo aver ricevuto l'endorsement di Jeb Bush. Ma Trump è ancora molto indietro, avendo per ora sotanto 739 delegati sui 1237 necessari per scongiurare una convenzione contestata e libera di scegliere un candidato senza rispettare le primarie. Lo aspetta un lungo viaggio, ma i suoi antagonisti Cruz e Kasich stanno peggio di lui non solo perché hanno meno delegati, ma perché non potranno incassarne molti prima della Convention di luglio. Trump invece, col vento in poppa, può ancora farcela con le sue forze. Ma la sua è una corsa a ostacoli.E qui dobbiamo fare un passo indietro. Tutto questo massacro interno al partito Repubblicano dipende dal rigetto dei quadri alti nei confronti di un candidato arrivato fra capo e collo. Il partito lo rifiuta.

Ma, ecco il problema, Trump non è rigettato dal corpo elettorale, tutt'altro. Ha addirittura creato un elettorato proprio che va a votare soltanto se c'è lui. Dopo la ribellione al vetriolo dei media (compresa la televisione Fox, di destra, che non l'ha data vinta a Trump sulla giornalista che lui odia) è venuta la ribellione dei quadri politici parlamentari, dei senatori, dei congressmen che guardano Trump con disgusto. Il risultato finale è catastrofico: il partito è irreparabilmente spaccato e chiunque vinca la convention (Trump, Cruz o una terza figura scelta dal congresso dei delegati) sa già che non potrà fare il pieno dell'elettorato di destra. Ma, per complicare le cose, Trump fa il pieno dell'elettorato democratico esasperato da Obama.Per ultima è arrivata la ribellione degli intellettuali della destra con la rivolta aperta della più brillante, sofisticata e intelligente rivista settimanale Weekley Standard diretta da William Kristal che ha pubblicato un manifesto intitolato «Donald and Decadence».

Il manifesto si apre con la dichiarazione del lobbista John Feery, illustrata dalla foto di un tatuato energumeno che esibisce sul deltoide il faccione beffardo di «The Donald», il quale ha dichiarato: «Se non fosse per i suoi commenti idioti e razzisti, sarebbe una boccata d'aria fresca. In fondo Trump è un uomo del fare che non dipende da ideologie o interessi altrui. Non rappresenta alcuna minaccia per il futuro della repubblica. È però un buffone e un opportunista politico».Kristal fa la sua diagnosi: un uomo così decadente è il frutto della decadenza. Possiamo anche capirlo ed essere talvolta attratti da lui. Ciò che non possiamo consentire sono le sue urla, gli insulti, il passaggio dalla decadenza alla degradazione. Su questo dobbiamo fare barriera e respingerlo come un frutto tossico della decadenza che rappresenta.

Trump se ne frega. Legge, capisce, tratta i giornalisti come faziosi provocatori e se ne infischia se Internet è pieno di sue citazioni contro i musulmani, le donne, i messicani e chiunque gli stia sulle scatole mentre parla. La sua eloquenza consiste in un'emissione rapidissima di parole, non tutte sensate e raccordate, che raggiunge l'audience come un rap. Girano trascrizioni letterali delle sue improvvisazioni che sembrano folli ma che funzionano sul palco perché sono Pop. Il confitto in casa repubblicana naturalmente fa venire l'acquolina in bocca a Hillary Clinton che quando può vira a destra, almeno a parole, per rastrellare la parte moderata dell'opinione pubblica avversaria. E anche per marcare la differenza con Bernie Sanders che prosegue la sua corsa senza premio finale, portando la fiamma della gioventù bianca ribelle, affidata alle mani di un vecchio signore che non prende soldi da nessuno.

Sanders nuoce gravemente alla salute di Hillary Clinton perché ogni volta che può ricorda che la Clinton è una creatura dei suoi miliardari finanziatori che la riforniscono con una pompa per aeroplani. Del resto Obama a Cuba è stato rimbeccato da Raùl Castro sulla questione della democrazia, sottolineando che il presidente americano aveva elegantemente glissato sulla questione del potere corruttore dei finanziamenti politici negli Stati Uniti. Trump, come Sanders, ha facile gioco nel dire: sono ricco di mio e la ricchezza mi rende libero. Sanders da parte sua vive di piccole donazioni e di volontariato rosso, o almeno rosa, e così la politica americana, specchio della crisi verticale di questo Paese, è entrata in un tunnel di cui non si vede l'uscita. Discutere se l'inaspettata ascesa di Trump e di un socialista radicale dall'altra siano i sintomi o la malattia stessa, è ozioso. Quel che è certo è che questo grande Paese sta cambiando pelle, linguaggio e ruolo nel mondo. In fondo, non ha bisogno di proteggere pozzi di petrolio altrui per le proprie necessità energetiche.

L'isolazionismo, al di là delle parole di circostanza sul terrorismo, è l'antica e maggiore tentazione e gli americani di destra e di sinistra sentono la necessità di una rifondazione sociale interna, più che dell'impero del mondo.

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