Favori, favori, favori. Depurata dalle teorie complottarde, la spy story che agita in questi giorni il mondo italiano della politica e dell'intelligence è solo la nuova puntata di una faccenda vecchia come la Repubblica: la subalternità dei nostri servizi segreti nei confronti dell'alleato statunitense, l'esistenza dentro le nostre agenzie di sicurezza di una sorta di partito «amerikano» che trae la sua forza dai rapporti privilegiati con Washington. E che per tutelare questi rapporti è pronto a venire incontro ai desideri a stelle e strisce. Leciti o (come dimostrò il caso Abu Omar) illeciti.
La storia che ruota intorno a Joseph Mifsud, professore maltese di casa a Roma e probabile agente della Cia, è a suo modo esemplare: perché racconta bene come gli «amerikani» dei nostri servizi siano a disposizione non di questa o quella fazione Usa, ma semplicemente di chi comanda in quel momento. Una flessibilità tutta italiana, si potrebbe dire.
La storia infatti si svolge in due tempi. Il primo è nel 2016: alla Casa Bianca c'è Barack Obama, alla fine del secondo mandato, e i democratici si preparano a sfidare con Hillary Clinton il repubblicano Donald Trump. Per fermare il tycoon dai capelli rossi parte una sorta di trappolone, si costruisce uno scandalo che punta a delegittimarlo: uomini a lui vicini vengono avvicinati con la promessa di carte provenienti dal Cremlino che screditano Hillary. Uno degli uomini di Trump che casca nella trappola è George Papadopoulos, uno dei suoi consiglieri. E ad attirarcelo è stato lui, Mifsud: che all'epoca insegna alla Link Campus, l'università romana amata dalle nostre «barbe finte». Nell'organizzare la trappola all'uomo di Trump, Mifsud si avvale dell'aiuto dei suoi amici nella nostra intelligence? Se questo è accaduto, è accaduto sicuramente con il consenso del presidente del Consiglio dell'epoca, Matteo Renzi, e del suo delegato ai servizi segreti, Marco Minniti. (Così in questi giorni Papadopoulos e Renzi danno vita a un buffo siparietto via Twitter: l'americano accusa l'italiano di avere orchestrato il bidone, Renzi gli ritwitta «lei risponderà di queste accuse in un tribunale italiano», Papadopoulos ribatte che questa storia «costerà a Matteo Renzi la sua carriera politica»).
Fine del primo tempo. In America Trump vince le elezioni, viene scagionato dall'accusa di avere tramato con Putin per fregare la Clinton, scarica Papadopoulos e fa partire una controcommissione d'inchiesta per accusare i suoi ex accusatori. E gli uomini del presidente vengono a cercare le tracce del complotto fino a Roma: dove nel frattempo Mifsud è sparito nel nulla. A maggio dello scorso anno, mentre l'Fbi lo cerca invano, alcuni vicini di casa lo incrociano ancora un paio di volte: la casa è in via Cimarosa 3, ed è di proprietà della Link Campus. Dopodiché il professore sparisce definitivamente. Ma Trump e il suo procuratore generale Barr non mollano. Vogliono a tutti i costi (l'anno prossimo in America si vota di nuovo) trovare le tracce del complotto democratico del 2016.
E Barr arriva a Roma. A rivelarlo il 28 settembre è il Giornale.it. La prima missione è dell'agosto scorso, quando il ministro americano incontra i capi dei nostri servizi segreti. Pochi giorni dopo, arriva il ringraziamento, il famoso tweet in cui Trump esprime il suo appoggio all'amico «Giuseppi Conte» per la formazione del nuovo governo.
Una parte dell'intelligence italiana ha aiutato Obama quando comandava Obama, e una parte dell'intelligence aiuta Trump ora che al potere c'è lui. Ed è probabilmente sempre la stessa parte, fulminea nel rischierarsi appena di là dall'Atlantico cambiano gli equilibri. Ora Renzi chiede a Conte di dare conto al Parlamento di quanto stia combinando in questi giorni nei rapporti con i servizi Usa.
Ma forse nemmeno lui ha interesse a sollevare del tutto il velo sui legami sotterranei tra la Cia e i nostri 007. D'altronde fu lui, quando era premier, a dare l'okay alla grazia ai due agenti americani condannati per il sequestro Abu Omar.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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