La lettura di Lotta comunista mi fa tornare ragazzo. È l'organo dei Gruppi leninisti della sinistra comunista, il che già significa meno siamo meglio stiamo; predica «l'opposizione proletaria all'imperialismo unitario», che qualsiasi cosa voglia dire è senz'altro un vasto programma; sostiene che «solo nella scienza marxista e nella lotta per il comunismo c'è l'unità del proletariato mondiale», e la cosa fa pensare che per i proletari non ci siano molte speranze.
Sedici pagine, un euro a copia, è un giornale come non se ne fanno più, ma come, trenta, quarant'anni fa se ne facevano a bizzeffe: articolesse di smodata lunghezza, proliferare di virgolettati, recupero e rimessa a nuovo di vecchi testi, convinzione assoluta di essere nel giusto. E poi vendita militante, prezzo militante, scrittura militante, pubblico militante, nel senso che più che leggerlo, il suo compito è comprarlo. Si capisce che è fatto per chi lo scrive, un difetto che ha sempre accomunato noi ideologi di minoranza, infastiditi alla sola idea di avere dei seguaci.
È naturalmente un giornale storico, nel senso che detestando l'attualità, che non si decide mai a dargli ragione, si rifugia nel passato, riletto e corretto per spiegare i disastri del presente e assicurare le inevitabili e magnifiche sorti che gli riserverà il futuro. Nel numero che ho sottomano, c'è un'analisi delle teorie di Lassalle in opposizione a quelle di Marx e Engels, uno studio sulle culture politiche in Italia più o meno al tempo della Destra storica post-risorgimentale, una paginata su Lenin e la Grande guerra, lo sviluppo del capitalismo tedesco nel primo Ottocento, la Ford e la General Motors nella Germania nazista... Poiché nessuno è profeta in patria, e poi si sa, le vicende politiche italiane sono noiose e provinciali, gli argomenti più in voga sono le cronache europee, la «canonizzazione» dell'Irak, i grandi gruppi Usa, la globalizzazione sanitaria, la politica «transatlantica» tedesca, gli acciai dello sviluppo imperialistico. Al governo Renzi è dedicata una pagina, alla sua riforma del lavoro mezza, perché l'altra metà è in condominio fra lo sciopero degli cheminots francesi e il sistema sociale tedesco. D'altra parte, avendo come ideale interlocutore «la forza mondiale della nostra classe», ovvero il proletariato, si capisce che «le illusioni localiste, nazionaliste, protezioniste sono un vicolo cieco»: non c'è alternativa «a una strategia internazionalista».
Che cosa sia la «scienza marxista» non saprei dire. A occhio sembra più una religione, se non una fede, ma in qualcosa bisogna pure credere e poi se c'è un elemento che nel marxismo scientifico ha sempre funzionato è quel combinato disposto della dialettica, dove tesi e antitesi fanno comunque emergere una sintesi che a posteriori spiegherà tutto. Anche l'inspiegabile. Per esempio, c'è un «imperialismo unitario» che va combattuto. Lo può combattere la «forza-lavoro globale», ovvero il proletariato di tutto il globo, «il vero respiro del mondo», e che in trent'anni è aumentato di un miliardo e passa di persone. È così che decine di milioni di salariati «hanno trasformato la Cina in un colosso industriale», proprio di quell'«imperialismo unitario» di cui sopra. Pechino però insidia «l'ordine stabilito delle relazioni globali», in sostanza le vecchie regole dell'imperialismo americano e di quello europeo. Dunque, rafforzando quello unitario dovrebbe andare in pezzi l'altro vecchio stile, e quindi forza Cina... Però poi come facciamo a toglierci dai piedi il nuovo imperialismo giallo, divenuto nel frattempo punta di diamante di quello globale? Niente paura, ci penserà «la forza mondiale della nostra classe». Adesso che siamo più tranquilli, riprendiamo a sonnecchiare davanti alla televisione.
Sarà che è una questione di «tempo storico delle generazioni». Prendi Marx. La guerra europea che avrebbe dovuto permettere ai suoi schemi strategici di trovare uno sbocco, non avvenne, però sarà la generazione di Lenin a tirare le somme e a portare a casa l'incasso. Per cui il primo, pur avendo torto, in realtà aveva ragione. Certo, ebbe ragione proprio nell'unico Paese dove pensava che avrebbe avuto sempre torto, arretrato, senza borghesia e senza capitalismo, ma non bisogna essere troppo pedanti, se no si cade nel frazionismo trotzkista.
Quando avevo vent'anni, dibattiti del genere erano pane quotidiano e case editrici come Einaudi e Feltrinelli avevano i magazzini talmente pieni di Prime Internazionali e Movimenti Operai che quando poi passarono di moda, rischiarono il fallimento e saggiamente passarono a Gino e Michele e a
Isabella Allende. Anche qui, è il destino cinico e baro del «tempo storico delle generazioni». E nel passaggio da Togliatti a Renzi si capisce che il proletariato italiano può solo sperare nell'acquisto di uno straniero.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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