Il pressing è parallelo e per alcuni versi opposto. E tiene insieme Sergio Mattarella e Mario Draghi, vicini ma allo stesso tempo distanti nella partita del Quirinale che si aprirà con la prima votazione del Parlamento in seduta comune tra il 18 e il 20 gennaio. Vicini, perché al di là di resistenze - in un caso personali e nell'altro d'opportunità - restano tuttora in corsa. Distanti, perché il primo - anche per ragioni familiari - si è ripetutamente chiamato fuori dalla partita, mentre il secondo si è ben guardato dal farlo. E non per discrezione, ma perché - assicura chi ha con l'ex numero uno della Bce una consuetudine quotidiana - è proprio il Quirinale la sua, assolutamente legittima, ambizione.
Così, a poco più di 45 giorni dal via libera al Quirinal game, i due scenari che fino a qualche mese fa erano i più gettonati restano in campo. Il primo, quello del Mattarella bis, perché il Pd - che non ha un suo candidato al Colle - spinge in questa direzione. Tanto che i dem - a firma dei senatori Dario Parrini, Luigi Zanda e Gianclaudio Bressa - ieri hanno depositato un disegno di legge costituzionale che modifica gli articoli 85 e 88 della Costituzione e vieta la rieleggibilità del presidente della Repubblica. Un tema molto caro a Mattarella, tanto - almeno nelle aspirazioni del Pd - da poter lasciare una porta aperta a un bis che abbia come obiettivo anche quello di approvare una riforma costituzionale che vada in questo senso. Il secondo scenario è, invece, quello Draghi. Che non raccoglie l'entusiasmo dei partiti. Dei leader, ma soprattutto dei gruppi parlamentari, visto che un trasloco diretto dell'ex Bce da Palazzo Chigi al Quirinale aprirebbe inevitabilmente la riffa sulla formazione di un nuovo governo. Alla fine è plausibile supporre che si riuscirebbe a trovare un punto di caduta per evitare di interrompere la legislatura, con quattro quinti di parlamentari destinati a non rientrare e dunque molto sensibili sia all'ultimo anno di stipendio che allo scadere dei termini per maturare la pensione. Ma è evidente che questo è lo scenario che più si avvicina a quelle elezioni anticipate che deputati e senatori - cioè ben oltre il 90% dei grandi elettori presidenziali - vedono come una discesa all'inferno.
È su questo doppio binario, però, che si muovono in molti in queste ore. Anche per sventare la terza via, quella dell'outsider di lusso. Tra cui c'è anche un Silvio Berlusconi che ormai inizia seriamente a preoccupare il centrosinistra, Pd in testa. Di qui la scelta di presentare un ddl di riforma costituzionale che, politicamente parlando, serve a mettere sul tavolo un tema che potrebbe legittimare il bis di un riottoso Mattarella. E, seppure sia assolutamente improbabile che possa arrivare ad approvazione, rappresentare una buona ragione per non interrompere la legislatura. Non a caso - spiegava ieri il ministro Dario Franceschini alla presentazione del libro di Gianfranco Rotondi, La variante Dc - «siamo ancora in emergenza» e «la legislatura deve arrivare a termine». Il partito guidato da Enrico Letta, d'altra parte, non ha un suo candidato al Colle. E, soprattutto, teme che i numeri del centrodestra possano riuscire ad essere per la prima volta nella storia decisivi per la scelta del nuovo inquilino del Quirinale.
Su tutti questi ragionamenti, però, pesa la forza con cui Draghi si sta muovendo per non chiudersi la porta del Colle.
In privato, infatti, i ministri a lui più vicini - e più sensibili alle sue riflessioni - non hanno ormai più esitazioni nel sostenerlo. Alcuni lo fanno anche in pubblico, seppure con molta discrezione. Ma è evidente che il premier è sceso in campo e proverà a giocarsi la partita fino all'ultimo momento utile.
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