Madrid José Roselló e Victoria García, i genitori di Julen, hanno dovuto abbandonare la loro casa per motivi di sicurezza. La loro abitazione è troppo vicina alla collinetta che racchiude il pozzo che ha ucciso il loro bimbo. I lavori di soccorso hanno maltrattato il suolo, movimentando migliaia di metri cubi di terreno, con cariche esplosive e trivellazioni. Potrebbe essere imminente un cedimento del terreno già nelle prossime ore.
Ángela Alcaide, un'abitante del vicino borgo di Olías, li ha accolti nella sua grande casa. José e Victoria hanno avuto pochi attimi per vedere il corpo di Julen, due anni, riportato in superficie da un agente della Guardia Civil. L'hanno poi pianto all'obitorio, per il riconoscimento ufficiale e, infine, nella sua cameretta, dove ogni gioco, ogni vestitino, è rimasto così da domenica 13 gennaio.
Totalán, settecento anime nella provincia di Málaga, «la città dei camaleonti», come recita il cartello segnaletico, si è spesa ogni secondo per aiutare tutti i soccorritori, dando al mondo una grande lezione di solidarietà e amore. Tante famiglie hanno preparato colazioni, pranzi e cene, offrendo un quantitativo così esagerato e vario di cibo ai trecento soccorritori da sfamarne altri mille. Al terzo giorno di lavori, un portavoce della Guardia Civil in tv ha ringraziato tutti per l'affettuosa collaborazione, chiedendo, un po' imbarazzato, di non portare più nulla, nemmeno un solo panino in più. C'era cibo per arrivare a Pasqua. È l'indomabile calore umano dell'Andalusia, meridione di Spagna e d'Europa.
Un abitante, per proteggerli dall'assalto dei giornalisti e fotografi che braccavano José e Victoria, ogni volta che mettevano il naso fuori casa, ha offerto un camper completo di ogni comfort così da ospitarli vicino alla zona rossa dei lavori di soccorso e apprendere per primi la dolce notizia che, invece, non è arrivata.
La coppia, lui ex camionista, ora lavoratore agricolo, lei casalinga, nei primi giorni ha palesato alla Spagna intera la propria disperazione, addolcita dalla speranza che i minatori fossero sempre più vicini a Julen. Era questione di ore. Poi, si è chiusa nel dolore, quando, dopo dieci giorni, alcuni sottovoce, esprimevano il timore che era ormai inutile continuare a quel ritmo. Ma non si doveva mollare.
I Roselló nel 2018 avevano perso il loro primogenito Òliver, in un giorno d'estate trascorso al mare. Il bimbo di tre anni si era piegato per terra ed era morto d'infarto. Per giorni papà José ha ripetuto, piangendo, che non potevano sopravvivere alla perdita di un altro figlio. Il loro dolore, impotente, era diventato anche rabbia. «Perché gli ingegneri hanno sbagliato per due volte le misure del tubo per salvare mio figlio!» aveva urlato papà José. «Perché nessuno mi dice a che punto sono gli scavi. Mi dicono sempre ci siamo quasi, ci prendono in giro». Parole avvelenate dallo strazio, parole ingiuste per trecento uomini che non hanno dormito per giorni, creando «un'opera d'ingegneria umanitaria» come ha scritto El País. Erano le parole di un padre disperato davanti all'ennesima disgrazia personale. Uno sfogo comprensibile.
I Roselló divorati dal medesimo dolore della famiglia Rampi che, il 13 giugno del 1981 guardò impotente la morte del figlio Alfredino di sei anni, caduto e intrappolato a 30 metri in un pozzo artesiano nella campagna di Frascati.
Alfredo «Alfredino», morì il quarto giorno, tra le braccia di Tullio Bernabei, lo speleologo 22enne che riuscì a raggiungerlo. Ma fu troppo tardi anche quel giorno. Da ieri l'intera Spagna ha il cuore a pezzi, come l'Italia di trentotto anni fa.
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