Politica

Rapine horror, cavavano i denti alle vittime

Arancia meccanica nel Napoletano: presi gli ultimi tre di una banda di albanesi che assaltava le ville

Antonio BorrelliNon si accontentavano di rapinare centinaia di famiglie in ville isolate delle province campane e lucane, ma come fossero posseduti scaricavano la propria ferocia sulle vittime inermi. Quello che era diventato l'incubo criminale del Sud Italia si è dissolto ieri, quando i carabinieri della compagnia di Casoria, in provincia di Napoli, hanno sgominato la banda di violentissimi albanesi dopo mesi di indagini. Il gruppo, composto da otto persone, era esperto ed organizzato nei dettagli: partivano dalla base di Caivano, sempre nell'hinterland napoletano, a bordo di potenti auto rubate e appositamente modificate, recuperavano le armi dai nascondigli e raggiungevano gli obiettivi. La meticolosa pianificazione prevedeva anche un cambio di targhe: erano «pulite» durante i sopralluoghi, venivano alterate durante i colpi. I raid notturni avevano il sapore dell'horror più crudo: gli albanesi irrompevano nelle case, forzando finestre e serrature con passamontagna, tute nere e armi in pugno. Durante i furti seviziavano i residenti con botte, calci, denti cavati e minacce di morte alla ricerca di casseforti e gioielli. Le vittime parlano di torture disumane per minuti interminabili, e forse questa volta il classico rimando cinematografico ad Arancia Meccanica è persino riduttivo. Storie atroci e incredibili che siamo abituati a vedere soltanto sugli schermi tv. D'altronde, tra gli arrestati «eccellenti» figura anche Jakimi Enver, un 49enne ricercato persino dall'Interpol per reati simili e per omicidio in Albania. Dagli inquirenti è stato definito il più pericoloso e feroce degli indagati. Ma la brutalità e la determinazione degli otto si sono scagliate persino ai danni dei carabinieri. Nel corso delle indagini la banda era già stata intercettata dalle forze dell'ordine, riuscendo però a forzare i blocchi e a fuggire nelle campagne. E le stesse ricerche, coordinate dalla Procura della Repubblica Napoli Nord, sono state caratterizzate da fughe rocambolesche, posti di blocco superati, sparatorie e vetture speronate. Non una banda di sprovveduti, ma un organico criminale con un assetto ben costruito, capace di seminare terrore in un vasto territorio già ampiamente martoriato da un'altra criminalità organizzata, quella «made in Italy» della camorra. D'altronde Caivano, comune di 38mila abitanti stretto a Sud da Napoli e a Nord da Caserta, si trova nel cuore di un'agglomerato distrutto da povertà e delinquenza invasiva, nel nucleo di una Terra dei Fuochi già ampiamente controllata da forze occulte. Sorprende allora che gli spietati albanesi, che avevano posto il campo-base proprio nella cittadina napoletana, potessero agire tanto liberamente. Ciò che ancora sfugge sono i rapporti che avevano con gli altri poteri criminali limitrofi: agivano con il beneplacito della camorra o riuscivano a sfuggire persino ad essa? Per molti è difficile credere al «pass» concesso dalla malavita campana. Certo, la meticolosità e le precauzioni con cui la banda preparava i propri colpi farebbero propendere verso l'ipotesi delle azioni autonome, e le stesse forze dell'ordine ad oggi non avrebbero trovato traccia di legami tra albanesi e camorristi. Un elemento è indubbio, se ancora ci fosse bisogno di sottolinearlo: quello di una supposta difesa dei camorristi per i propri concittadini rimane un arcaico mito creato ad hoc e ormai decaduto.

E la banda degli albanesi ne è una prova.

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