«Il comportamento di Renzi è incompatibile con la democrazia». Nello Rossi è un ex magistrato. È il direttore della rivista online di Magistratura democratica Questione Giustizia ed è finito sui giornali perché Matteo Renzi ce l'ha con lui per un'espressione, «cordone sanitario», che sa di censura se non di Tso, un trattamento sanitario obbligatorio. È l'ennesimo capitolo dello scontro tra il leader di Italia viva e i magistrati.
Lei sostiene che l'espressione che ha usato contro il senatore Renzi non sia così grave...
«Da cittadino e da osservatore delle istituzioni sono rimasto dapprima incredulo e poi indignato dalla visita resa, all'inizio del 2021, dal senatore Renzi alla corte del principe saudita Muhammad Bin Salman e dal fatto che per essa avesse ricevuto un compenso. Essere stato presidente del Consiglio comporta oneri anche quando si è cessati dalla carica, essere parlamentari non è compatibile eticamente e politicamente - con l'adulazione dei despoti».
Sarà, ma Renzi la considera la minaccia di una intera corrente...
«No, nessun ostracismo personale, che non sarei comunque in grado di decretare, a dispetto delle suggestioni e delle insinuazioni profuse al riguardo anche nell'ultimo libro del senatore. Solo il legittimo esercizio del diritto di critica verso scelte e comportamenti di un uomo politico».
Lei però è stato comunque uno dei fondatori di Magistratura democratica, una corrente accusata spesso di fare politica
«Il mio è un diritto esercitato liberamente da un giurista senza potere come direttore di una rivista, che non intende accogliere il prepotente invito all'autocensura e l'idea del senatore Renzi che il suo modo di agire in determinate circostanze debba essere esente da ogni valutazione etica o politica».
Ma per Renzi una corrente non può fare politica. E attacca il Sistema disvelato nel libro di Luca Palamara. Le toghe rispondono con lo sciopero flop. Mossa giusta quella dei suoi ex colleghi?
«Lo sciopero è un mezzo estremo da usare con grande cautela. Ma questo sciopero lo capisco. Le attuali valutazioni di professionalità hanno fallito. Ma ci sono alternative più serie della irrealizzabile e ingannevole valutazione statistica degli esiti dei procedimenti: responsabilizzare maggiormente i dirigenti; estendere le valutazioni, oltre gli attuali 28 anni, a tutta la vita professionale dei magistrati; moltiplicare le fonti di valutazione dando il diritto di voto agli avvocati ed ai professori presenti nei Consigli giudiziari».
Lei ha fatto un balzo di carriera repentino, che raramente avviene in magistratura. È stato Procuratore aggiunto a Roma e poi subito dopo Avvocato generale in Cassazione. Merito della sua leadership dentro Magistratura democratica?
«Domanda interessante. Perché dà voce ad un sospetto generato dalla sistematica campagna di denigrazione della magistratura oggi in atto: se hai fatto carriera vuol dire che sei un correntista privo di meriti professionali. In realtà faccio parte di una generazione di magistrati per la quale un grande impegno professionale e un forte impegno associativo sono stati sempre indissolubilmente legati».
È favorevole alla separazione delle carriere o delle funzioni come chiedono i referendum?
«No. Per molte ragioni professionali, processuali, istituzionali che ho esposto mille volte e, da ultimo, al congresso delle Camere penali. Ma stiamo al solo referendum. Se ha letto per intero il quesito referendario e se le è chiaro (per raccapezzarmi io ho avuto bisogno di parecchio studio) avrà notato che i proponenti vogliono tagliare tutti i ponti tra le due funzioni ma non toccano il concorso di accesso, che rimane unico.
La scelta iniziale della funzione (fortemente condizionata dalla posizione in graduatoria e dalle contingenti difficoltà ed esigenze dei giovani vincitori di concorso) deciderebbe della intera vita professionale dei neo magistrati. In qualunque altra amministrazione verrebbe considerata una follia. Ma evidentemente il buon funzionamento della giustizia non è una preoccupazione delle ragioni referendarie».
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