Renzi pensa di dimettersi per indire il congresso Pd

I capicorrente suoi "alleati" non vogliono le urne anticipate. E il leader punta a sparigliare i giochi

Renzi pensa di dimettersi per indire il congresso Pd

«Certo che si vota entro giugno. Del 2018, però». La battuta di una vecchia volpe democristiana come Beppe Fioroni rende bene il clima all'interno del Pd.

Il partitone della stabilità ingrossa le file nei gruppi parlamentari, tanto che da Palazzo Madama parte un documento, firmato da quaranta senatori Pd, che si schierano contro il voto anticipato e che viene subito ribattezzato «la mozione Napolitano», a sottolineare che l'ispirazione arriverebbe dal presidente emerito. «Sostenere il governo Gentiloni, nella pienezza dei suoi poteri; rimettere in piedi il Pd; lavorare a una legge elettorale omogenea per Camera e Senato; non concedere nulla alla pulsione antipolitica», sono le priorità elencate. Perché, spiegano i quaranta, «serve un tempo ragionevole per l'elaborazione di una prospettiva, degli obiettivi». I toni sono soft, il linguaggio felpato. Ma il messaggio è chiaro: un pezzo consistente del gruppo parlamentare si schiera contro la linea renziana, e avverte il segretario che, se ha intenzione di accelerare per il voto anticipato, non gioca più con lui. Certo, ci sono esponenti bersaniani e personaggi che si sono spesi contro il segretario per il No al referendum sulle riforme, come Corsini, Dirindin, Manconi o Lo Giudice. Ma il fatto significativo è che tra quei nomi ce ne sono molti che invece hanno militato nella maggioranza pro-Renzi e si sono battuti per il Sì: uomini di Dario Franceschini, di Andrea Orlando, renziani della seconda e terza ora come Monica Cirinnà, Laura Puppato, Mario Tronti, Sergio Zavoli. Alla Camera nessuno raccoglie le firme, ma l'atmosfera è la stessa, e un giulivo Pier Luigi Bersani cavalca l'onda e spiega la linea, calandosi nei panni del segretario ombra: «È ora che tutti, dico tutti, dicano parole chiare: Io sono per il voto nel 2018. Il governo deve governare, dobbiamo predisporci a un turno di amministrative, a un referendum, e bisogna togliere i voucher. Non so cosa si aspetti. A giugno bisogna aprire il congresso del Pd».

Matteo Renzi, che ieri era a Roma nella sede del partito, non parla. Ma i suoi assicurano che ha capito che, piuttosto che andare a votare a giugno, il grosso dei parlamentari è pronto a tutto. Anche perché, fa notare qualche maligno, col voto anticipato molti di loro perderebbero 7 o 8 mesi di stipendio, e senza alcuna garanzia di essere rieletti visto che le liste le fa il segretario. E quindi Renzi si prepara ad aprire un congresso anticipato «in tempi brevi, entro la primavera» e quindi ben prima del giugno indicato da Bersani, dicono i renziani: non a caso ieri, in Transatlantico, rimbalzava la voce che il leader, nella direzione di lunedì, sia pronto ad annunciare le dimissioni. Per poi sfidare Speranza, Emiliano o chi per loro, e nel frattempo lavorare ad una legge elettorale «che garantisca la governabilità» (ma il premio di coalizione continua a non piacergli) e a sostenere il governo Gentiloni su una «linea forte e propositiva», che non escluda lo scontro con Bruxelles sul rapporto deficit-Pil perché «l'Italia dice un esponente di governo non può permettersi ora una manovra recessiva che uccida la crescita».

Intanto sia Orlando che Franceschini ieri hanno smentito le voci di operazioni interne guidate da loro per defenestrare Renzi: «L'altro ieri ho ereditato il patrimonio del Pci, ieri è stata calata la mia candidatura alla segreteria», ironizza Orlando: «Un insieme di fandonie finalizzate a ravvivare il

mio compleanno». Franceschini fa invece sapere che se l'altra notte ha riunito i suoi alla Camera era per sostenere il premio alla coalizione: una soluzione che, spiegano i suoi, «terrebbe unito il Pd, rafforzando Renzi».

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