Renzi vede la fine del Pd: "Li saluterò da lontano"

La strategia se perde il Sì: governo di scopo guidato da Padoan e resa dei conti al congresso

Renzi vede la fine del Pd: "Li saluterò da lontano"

Che vinca il Sì o vinca il No, una cosa è chiara: dopo il referendum, il Pd non sarà più quello di oggi.
La rappresentazione plastica della frattura profonda che divide il principale partito italiano l'hanno data ieri quei militanti del Pd che lunedì, davanti al Nazareno, si sono spontaneamente riuniti («Magari fossimo così bravi da organizzare queste cose», dicono i renziani) e hanno contestato con durezza gli esponenti della minoranza Pd, da Roberto Speranza, accolto al grido di «Ma vai a lavorare!», ai vari Bersani, Cuperlo, Gotor eccetera: «State rompendo il nostro partito, volete solo bloccare tutto e far perdere il vostro segretario». Un segnale di esasperazione della base democrat contro la fronda interna che non è sfuggito a Matteo Renzi: «Una cosa è sicura: non consentirò che si blocchi il paese per fare contenti quelli della minoranza Pd», commenta lui. Il premier sa bene che il dissenso dei vari Bersani, Speranza e D'Alema non ha nulla a che fare con il merito della riforma costituzionale o della legge elettorale. Ad animare la fronda interna è «una profonda avversione, del tutto pre-politica, per un leader estraneo alla Ditta ex Pci, che non risponde ai riflessi pavloviani di quella scuola e che ha strappato la loro coperta di Linus identitaria», secondo l'analisi di uno dei consiglieri renziani.
Dunque, il premier ha ben chiaro che l'intento dei suoi avversari interni è quello di cavalcare comunque la battaglia del No alla riforma che loro stessi hanno votato, per poi scalzarlo prima da Palazzo Chigi e poi dalla segreteria del partito. Il ramoscello d'ulivo del «comitato» interno per le modifiche all'Italicum serve solo a levare a Bersani e compagni «l'alibi» che usano per motivare il No dopo aver votato la riforma e sostenuto pubblicamente le ragioni del Sì. «Voto Sì perché correggere il bicameralismo è importante, nella riforma ci sono cose molto buone e nell'insieme è un passo avanti», sosteneva convinto Bersani, solo pochi mesi fa, intervistato in tv. Il testacoda dell'ex segretario Pd, che ora dice di voler votare No, è motivato dal timore che, in caso di sconfitta del premier il 4 dicembre, sia l'alfiere anti-riforma della prima ora, Massimo D'Alema, a gestire il post referendum a sinistra al posto suo. Un dopo referendum sul quale, ovviamente, riflette anche Renzi, consapevole del rischio di implosione del Pd. «Se perdiamo, quelli cominceranno a litigare su chi ha ucciso il Pd, e io li saluterò da molto lontano», si sfoga nei momenti di massima esasperazione per la «sindrome Tafazzi» del centrosinistra. In realtà, lo scenario su cui ragionano a Palazzo Chigi in caso di vittoria del No prevede un Renzi assai più vicino e presente: dimissioni immediate da capo del governo, varo di un «governo di scopo» dall'orizzonte assai breve (giugno 2017?) per fare una legge elettorale, con a Palazzo Chigi un nome che abbia ovviamente l'avallo del segretario Pd, come ad esempio quello di Pier Carlo Padoan. Poi il congresso, nel quale Renzi cercherà di farsi dare una nuova legittimazione da leader, e la minoranza cercherà di dargli il colpo di grazia e «riprendersi il partito».

Ai bersanian-dalemiani manca allo stato un piccolo particolare: un candidato abbastanza forte da poter essere contrapposto a Renzi. Ed è già in corso un corteggiamento pressante verso Enrico Letta, l'unico - nelle loro speranze - potenzialmente in grado di rompere l'attuale maggioranza bulgara renziana nel Pd.

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