Guerra in Ucraina

Il rischiatutto di Erdogan tra mediazione e crisi

Lo stop ai Paesi nordici vacilla. Il sultano otterrà F16 americani e una vittoria sul gas

Il rischiatutto di Erdogan tra mediazione e crisi

Non c'è solo la strettissima relazione geopolitica con Mosca (e Pechino) dietro la decisione di Recep Tayyip Erdogan di bloccare l'ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato, ma anche lo stato comatoso dell'economia turca e la precarietà della leadership macroregionale del sultano di Ankara.

È di tutta evidenza che, dopo il no di tre giorni fa, il presidente turco se da un lato si è assicurato un po' di ossigeno da Putin e Xi, dall'altro si è giocato una buona fetta di possibilità di mediare tra Ucraina e Russia. Da tempo Erdogan sta abilmente sfruttando l'intero ventaglio delle debolezze strutturali dell'Ue al fine di portare a casa un qualche dividendo. Lo ha fatto, a suon di miliardi, in occasione della crisi dei migranti post-guerra siriana quando Angela Merkel, che in quelle stesse settimane rafforzava l'accordo sul gasdotto Nord Stream 2 con il Cremlino, lo aveva investito del ruolo di mister Wolf. Il risultato? Cinque milioni di profughi incardinati su suolo turco in cambio di 6 miliardi di euro e di un potere decisionale non indifferente, ancora più utile da quando gli americani hanno chiuso con l'Afghanistan.

Lo ha fatto, inoltre, quando ha capito che gli accordi di Abramo abilmente confezionati da Donald Trump stavano davvero piantando i semi di una nuova stagione tra il Golfo e il Medio Oriente e a quel punto si è guardato attorno, individuando la Libia come nuovo fronte da aggredire (scalzando Roma). Al contempo, per evitare il rischio isolamento, non solo ha dato ampie rassicurazioni a Teheran, ma ha riattivato una serie di canali verso i paesi arabi.

Lo ha fatto anche in modo diretto con gli Stati Uniti per un'ampia gamma di partite, tutte connesse fra loro: quando ha visto come Washington ha rafforzato la sua partnership con Atene, elevandola allo status di nuovo gas hub del Mediterraneo, Erdogan ha azionato la leva del gas, mettendosi di traverso al gasdotto Eastmed. Quest'ultimo è il naturale punto di caduta dei giacimenti di gas, copiosi, presenti al largo di Israele, Cipro ed Egitto. Per questa ragione Ankara provoca quotidianamente Nicosia e Atene, al fine di elevare il livello di tensione nell'Egeo.

In questo modo però, dopo essere stato espulso dal programma degli F35, si è anche attirato non poche critiche da Israele ed Egitto, con cui è sì impegnato in una tattica ripresa delle relazioni, che però non sgombera il campo, né al Cairo né a Tel Aviv, da diffidenze ataviche. Certo, Anthony Blinken adesso, anche al fine di ammorbidirlo, non ha chiuso alla vendita di qualche F16 Viper, mostrando però meno lungimiranza rispetto alle sortite sul Bosforo di Mike Pompeo e Benjamin Netanyahu.

Un quadro in cui si inseriscono le sabbie mobili rappresentate dalla crisi della lira turca e da un tenore di spesa pubblica legata alla geopolitica difficilmente prolungabile ulteriormente. La corsa agli armamenti, la continua infrastrutturazione come il secondo ponte sul Bosforo e un'opulenza tipica da dittatori africani, hanno zavorrato chirurgicamente l'economia del paese e mettono a rischio il consenso interno. Oltre alla Casa Bianca turca da 2000 stanze, ha fatto scalpore l'Air force one con interni in oro acquistato di seconda mano dal golfo e la lussureggiante residenza estiva.

Alla luce di tutto ciò, il presidente turco è ben conscio del fatto di essere nella vantaggiosa (ma rischiosa) posizione di poter offrire un servizio a tutti i contendenti. Alla Russia, perché vero cavallo di Troia nel recinto della Nato; agli Usa perché prezioso stantuffo nello stretto dei Dardanelli da dove regolare flussi e passaggi; alla Cina, perché transito strategico dei treni targati Via della Seta che, dopo il blocco delle rotte russe e ucraine a causa della guerra, trovano sul suolo turco un fisiologico punto luce.

Ma a giocare su più tavoli e provare a bluffare con tutti si finisce sovente per perdere tutto.

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