Quando fu eletta Virginia Raggi, io che non l'avevo certo votata e che come romano temevo la sua elezione, provai un inatteso shock positivo per l'effetto di trionfo plebiscitario che portava in Campidoglio un'autentica papessa Giovanna, anzi Virginia. Roma non ha mai avuto una regina romana, e le imperatrici o affini come Messalina non hanno lasciato di sé un ricordo molto regale. Era la prima volta di una donna, è stata un'occasione bruciata per ottusità e per totale incapacità di governare un organismo delicato e mostruoso al tempo stesso, come è Roma, le tante Rome che si sono accumulate e che chiedono non soltanto servizi e buon governo, ma una identità, una ragion d'essere, chiedono che Roma renda in oro sonante le qualità sepolte che possiede e che restano sepolte, oggi più che mai.
Tutti i romani aspettarono e ancora aspettano il suono di una tromba, di una voce, almeno l'effetto dell'annuncio come accade quando un leader riceve il dono del mandato popolare e lo riceve in cambio di un sano, onesto, legittimo voto di scambio: tu mi dai il voto, io ti do ciò che finora ti è stato negato. A questo punto possono seguire due diversi elenchi. Il primo, quello delle banalità amministrative: governeremo con onestà, faremo del nostro meglio eccetera. Il secondo è quello che gli americani chiamano la vision, che significa il sogno, l'idea di una trasformazione globale, radicale. Si può apprezzare o detestare la vision che ebbe il fascismo di quella Roma che per vent'anni fu trasformata in modo furioso, con la distruzione di borghi che forse oggi avremmo recuperato, pur di avere spazi enormi e scenografici: i Fori imperiali, via della Conciliazione che appiattisce San Pietro azzerando il colpo d'occhio dell'immensità che da allora è invece dosata a piccoli sorsi. E poi con l'avventura della Roma futuribile animata dai grandi pittori e dal razionalismo architettonico di Piacentini, quello che è stato definito «stile fascista» e che è anche il potente stile razionalista.
Prima ancora era avvenuta la grande rivoluzione urbanistica umbertina: la magnifica Roma della Belle Époque, degli artisti e intellettuali al Caffè Greco, Roma capitale indiscussa della cultura. Soltanto Margherita Sarfatti nei primi anni Venti, la fidanzata ebrea di Mussolini che sperava di diventare ministro della cultura fascista di cui il duce non voleva sapere, spingeva per un primato milanese che in quel tempo era minoritario rispetto alle febbri delle avanguardie romane che sconquassavano una città ancora effervescente, ribelle, futurista, teatrale, esagerata e sfrenata. La Roma umbertina nasceva da molte visioni che i pentastellati non hanno mai neppure annusato.
Nacque il piemontese quartiere Prati, simile a una nuova Torino di viali e controviali, ancora oggi ben funzionante, ma ormai totalmente in mano alla 'ndrangheta calabrese, come ha dimostrato una dimenticata sentenza della Cassazione a margine di una serie di processi diventati invisibili. La grande Roma creata da uomini di cultura e di magnifica erudizione come Rodolfo Lanciani di cui è rimasto il nome affibbiato a un viadotto, ma che faceva parte di un sistema culturale formidabile fatto di matematici, urbanisti, ingegneri, archeologi. E a quel sistema culturale e politico dettero il loro meglio gli italiani e i romani ebrei che avevano partecipato al Risorgimento, alle brigate garibaldine, alla politica azionista. Fra loro c'era stato questo genio che fu un sindaco al quale la signora Virginia Raggi farebbe bene a confrontarsi e il cui ritratto dovrebbe appendersi sulla parete dello studio, e fu Ernesto Nathan, nato a Londra e amico di Giuseppe Mazzini, il quale rivoluzionò Roma in nome di un ideale che non fosse quello dei dominanti proprietari terrieri principeschi. Ho abbastanza anni sulle spalle per ricordare l'entusiasmo di una nonna al ricordo di un patriota che rese Roma una città civile e moderna.
Come un cretino, magari solo ingenuo, avevo dato per scontato che la Raggi, che è anche una donna bella e con una sua eleganza, avesse l'ambizione della rivoluzione, la voglia di lasciare un'impronta di visione del presente e del futuro. E invece? Siamo ogni giorno di fronte alla solita lagna il cui refrain ripete che i problemi di Roma sono tremendi e antichi e che, parafrasando il vecchio detto, non si possono risolvere in un giorno. In un giorno no, accidenti, ma almeno facci vedere la lanterna magica della novità, di un futuro per questo agglomerato di sventure che è diventato Capitale di uno Stato europeo senza averne mai avuto la vocazione né la capacità urbanistica, una città impiegatizia e sgraziata nella sua enorme periferia senza né capo né coda.
Ma con un centro storico che dovrebbe essere una cittadella scintillante e perfetta, un monumento alla sua moderna monumentalità, e che invece è una pappa di denti rotti e fanghiglia, un dissesto ottuso, che non produce prospettiva, non genera sogni ma soltanto maledizioni.
Io abito nel centro storico e ho pagato a caro prezzo il diritto di parcheggiare quando ho la fortuna di trovare le strisce blu libere. E scopro che l'amministrazione Raggi se ne infischia dei diritti venduti ai cittadini e ti fa trovare le aree di parcheggio transennate e inaccessibili, con tanto di auto del Comune con la luce azzurra. Perché? «Stanno girando un film». Oppure: «Domani c'è un evento a Palazzo Doria». Uno dice: ma chi se ne frega del film e dell'evento a Palazzo con i camerieri in polpe e i principini con parrucca, lasciaci vivere la città come fanno i parigini a Parigi, i londinesi a Londra e via enumerando.
La sindaca è diventata una sfinge. Ogni tanto s'incazza, ogni tanto esibisce la propria esasperazione, si fa intortare da una pletora di badanti politici e ha dimostrato il teorema che avevamo già previsto: i Cinque Stelle non sanno garantire nulla perché non hanno altro da dire salvo che loro sarebbero geneticamente superiori, gli ariani del bene, i razzisti dell'etica, salvo che non sanno governare, non sanno amministrare, non sanno mostrare la capacità di sfidare, come ha fatto a suo tempo a New York il sindaco La Guardia e poi il sindaco Rudolph Giuliani e persino l'attuale De Blasio che quanto meno hanno ben venduto i loro sogni alla città, realizzando almeno i più importanti.
Non è nemmeno delusione, ma rabbia quella che ormai prende tutti i romani con cui parlo e che hanno votato Cinque Stelle. Una rabbia simile a quella che provocava il film La Grande Bellezza di Sorrentino in cui, dietro una fotografia grandiosa, si nascondeva una città inventata di sana pianta. Ma almeno, l'invenzione c'era.
Ora abbiamo una città che non è una invenzione ma che è il sepolcro di ogni sogno, brulicante di topi, di piccioni in riproduzione esponenziale, di gabbiani che sbranano piccioni e tutti che urlano nella notte mentre i camion dell'immondizia la famosa monnezza romana cigolano a tutte le ore vietate dai regolamenti con frastuono funebre.(2 - continua)
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