Qualche lettore avrà forse visto che sono stato invitato da Renzo Arbore alla celebrazione sullo schermo dei trent'anni di Indietro tutta nei panni di un delirante Magnifico Rettore. Lo spettacolo, malgrado la mia presenza, ha sfondato indici d'ascolto mai visti in vent'anni. Per me è stato divertente ma anche deprimente scoprire che gli italiani oggi sono disorientati di fronte al diritto di ridere e deridere senza eseguire le istruzioni di una cabina di comando. La separazione di fatto tra politica e società ha narcotizzato la comicità non militarizzata dal conformismo di Stato. Chi è nato quando finì Indietro tutta vorrebbe riconquistare quel diritto a ridere da persona libera, ma da cinque anni una bonaccia mefitica si è appiccicata all'umore degli italiani corrodendolo. L'umorismo si nutre invece divorando il conformismo. Per questo motivo la satira rappresenta la misura dell'indipendenza del singolo individuo. Il confronto fra ieri e oggi mostra un elettroencefalogramma collettivo tendente al piatto con rari sussulti. Per quattro serate ho poi discusso con il pubblico del teatro romano Brancaccino, indossando stavolta i panni del commediante che rifiuta di piegarsi alla dittatura della banalità.
I giovani applaudivano perché chiedono di essere liberati, prima di tutto, dal decrepito nuovismo autoritario di rottamatori e pentastelluti tristi, pronti a confiscare qualsiasi patrimonio, compreso quello della libertà di ridere senza seguire le istruzioni.
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