Prima se ne è letto solo un accenno in alcuni retroscena, poi il tema è diventato oggetto di qualche analisi un po' felpata, di quelle che non dicono, ma lasciano intendere. D'altra parte, la questione è all'ordine del giorno da qualche mese, non solo nei corridoi più riservati del Palazzo, ma pure nei salotti buoni dell'economia e dell'imprenditoria. Dove l'eventualità di archiviare l'esperienza di Matteo Renzi e riproporre ancora una volta il solito «governo di emergenza» è ormai considerato uno scenario possibile. Auspicabile per alcuni, ma comunque verosimile per tutti.
L'obiezione più ovvia – la più legittima peraltro – è che pensare a un altro esecutivo che non abbia l'investitura delle urne è piuttosto azzardato. Se davvero la parabola di Renzi è destinata a una rapida discesa, lo sbocco più naturale sembra infatti quello delle elezioni. Soprattutto dopo i governi di Mario Monti, Enrico Letta e, appunto, quello in carica. Tutti esecutivi che non hanno avuto un mandato popolare esplicito. Eppure, gli interessi di chi siede in Parlamento – quello a prolungare la legislatura e, dunque, lo stipendio fino al 2018 – si saldano perfettamente a quelli di un pezzo importante del mondo economico. In questo senso, l'uscita di qualche giorno fa di Diego Della Valle è stata eloquente. Perché è evidente che se il patron di Tod's si è esposto fino a chiedere a Sergio Mattarella di «prendere atto» che «l'esperienza di Renzi è arrivata alla fine» non è certo per caso. E poco importa che oggi Della Valle si stia concentrando sul lancio – previsto a settembre – del suo movimento Noi italiani, perché l'impressione è che in verità non guardi così lontano. Se oggi il capo dello Stato dovesse davvero «prendere atto» – ipotesi piuttosto improbabile –, la soluzione non potrebbe che essere quella di un esecutivo di transizione che porti al voto il prossimo autunno, insieme alla tornata amministrativa. Ecco, quindi, riaffacciarsi il fantasma del governo di emergenza nazionale, che a quel punto potrebbe pure allungarsi al 2017.
Il tema è caldo al punto che nei giorni scorsi c'è stato un durissimo scontro tra il Pd e il presidente del Senato Piero Grasso. La ragione ufficiale è la gestione dell'Aula durante l'approvazione del ddl Scuola, con il presidente dei senatori dem che ha scritto una lettera di fuoco alla seconda carica dello Stato parlando di «netta disapprovazione» per la sua conduzione dei lavori per così dire «permissiva». Il punto, però, non è tanto questo. Il non detto, infatti, è che Grasso possa far parte della partita del governo di emergenza e magari provarla a giocare attivamente facendo valere il suo peso istituzionale. Nei giorni dello scontro con Zanda, d'altra parte, più di un senatore dem accreditava uno scenario simile. Che potrebbe peraltro non dispiacere anche a chi è oggi costretto a giocare di rimessa rispetto a Renzi. Silvio Berlusconi per certi versi, ma anche la minoranza del Pd che avrebbe tempo di riorganizzarsi.
Al netto delle diverse considerazioni che si possono fare, però, il punto è soprattutto uno. Renzi ha ormai perso l'aura dell'intoccabile, tanto che - non solo dietro le quinte - lo si arriva a mettere in discussione senza mezze misure. D'altra parte, l'ultimo sondaggio di Euromedia non fa che confermare una lenta ma inesorabile presa di distanza degli italiani dal leader del Pd. Il giudizio su come ha gestito la vicenda della Grecia è implacabile: per il 40,7% degli intervistati l'atteggiamento di Renzi con la Merkel è stato «servile», per il 12% «codardo», solo il 18,2% lo definisce «intelligente» e «defilato», mentre secondo il 10,4 è stato addirittura «coraggioso». Il 52,7%, insomma, lo boccia senza mezze misure. È il segnale che l'idillio con gli italiani non c'è più.
E chissà che questo non dipenda anche dai pochi risultati raccolti in ormai un anno e mezzo di governo. Proprio ieri sono arrivati i dati dell'Ocse sulla disoccupazione in Italia: nel 2014 quella giovanile è cresciuta del 2,7% rispetto al 2013, arrivando a quota 42,7.
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