
Se qualcuno pensava che le unioni civili fossero un modo per lasciarsi aperta una uscita di sicurezza, dicendo addio al partner senza venire salassati dagli alimenti, deve rassegnarsi. La Cassazione, con una sentenza depositata nei giorni scorsi, stabilisce che anche quella forma light di addio costituita dalla rottura di una unione debba passare per le forche caudine dei venali conteggi del dare e dell'avere. Quelli in grado di trasformare qualunque distacco in una fucina di risentimenti.
Che lo scioglimento delle unioni civili potesse avere strascichi economici lo prevedeva in realtà già il testo della legge che nel 2016, con prima firmataria la pd Monica Cirinnà, aprì le porte al nuovo istituto: pensato non solo per le coppie omosessuali ma anche per quelle in cui maschio e femmina volessero convolare assumendosi impegni un po' più elastici del matrimonio tradizionale. A conti fatti, a contrarre le unioni sono state quasi solo coppie gay (prevalentemente maschili). Nel 2023, ultimo dato disponibile, le unioni sono state 3.019.
Finché è durata la luna di miele, gli "uniti" - che però preferiscono farsi chiamare anche loro sposi - non hanno dato da lavorare ai giudici delle sezioni Famiglia dei tribunali. E quali fossero in concreto le conseguenze economiche della dissoluzione di queste storie d'amore è rimasto a lungo inesplorato.
Ma il tempo passa, e anche le unioni appassiscono come i matrimoni. Così a fare da battistrada, e a finire ora sui giornali, è stato l'addio tra due donne friulane, convolate a unione nel 2016, poco dopo l'approvazione della legge Cirinnà, e approdate qualche anno dopo alla decisione di lasciarsi. Col risultato che una delle due si è rivolta al tribunale di Pordenone chiedendo di vedersi riconosciuto il diritto all'assegno di divorzio. Di divorzio, tecnicamente parlando, non si può parlare. Ma la signora in questione ha sostenuto di avere gli stessi diritti di una moglie abbandonata: soprattutto se era la parte debole della coppia, e per stare a fianco al "coniuge" ha sacrificato lavoro e carriera, di vedersi riconosciuto l'aiuto previsto dalla legge.
La causa ha avuto esiti alterni tra tribunali, corti d'appello, andirivieni dalla Cassazione, con i 500 euro al mese concessi inizialmente, poi revocati e riassegnati. Fino alla parola finale della prima sezione della Cassazione: che stabilisce, proprio sulla base della legge Cirinnà, che "nell'ambito della unione civile, non diversamente da quanto avviene nel matrimonio, l'assegno divorzile può riconoscersi ove, previo accertamento della inadeguatezza dei mezzi del richiedente, se ne individui la funzione assistenziale e la funzione perequativo-compensativa". È ben vero, dice la sentenza, che l'unione "è istituto diverso dal matrimonio, si può sciogliere con minori formalità e non conosce la fase della separazione e gli istituti ad essa connessi".
Ma ciò non giustifica che, quando l'unione scoppia, uno dei due ex coniugi debba trovarsi in brache di tela, soprattutto "se lo squilibrio economico tra le parti dipenda dalla scelta di conduzione della vita comune e dal sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti, in funzione dell'assunzione di un ruolo trainante" all'interno della famiglia, quando il "sacrificio sia stato funzionale a fornire un apprezzabile contributo al menage domestico". Anche nelle unioni gay, dice in sostanza la Cassazione, non sempre c'è la parità: c'è chi si occupa della casa mentre l'altro/a fa carriera. E di questo bisogna tenere conto, al momento di dirsi addio.