Dieci giorni dopo l'appello-ultimatum di Giuseppe Conte che invitava i suoi due vicepremier a tornare a una «leale collaborazione» e a sole 72 ore dal primo faccia a faccia post elezioni celebrato con tanto di plateale «batti il cinque» tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio, l'autoproclamato «governo del cambiamento» va incontro al suo primo vero stress test. E mette alla prova i nuovi e ribaltati equilibri di potere usciti dalle Europee.
Non era mai successo, infatti, che la Lega o il M5s decidessero di votare contro il parere del governo, peraltro con buona pace del Contratto che imporrebbe di «raccordarsi» sui temi non espressamente regolamentati. Già, perché al di là del merito della vicenda che riguarda il finanziamento ponte a Radio Radicale, il punto di caduta di quanto successo ieri mattina alla Camera in commissione Bilancio è il metodo. La Lega, infatti, ha sostenuto l'emendamento del Pd insieme alle altre opposizioni non per un caso fortuito, ma per una scelta ponderata e consapevole. Quasi volesse testare la capacità di tenuta del Movimento. Quella politica del gruppo parlamentare grillino, sempre più spaccato e in agitazione. E quella psicologica di un Di Maio che ogni giorno che passa è costretto a ingoiare rospi con il sorriso sulle labbra. Come accaduto ieri, visto che il suo lungo post su Facebook in cui criticava duramente la scelta della Lega di «regalare soldi a una radio privata» veniva superato poco più tardi dall'immancabile conferma che la tenuta dell'esecutivo non è in discussione. D'altra parte, che il leader M5s sia aggrappato alla sua poltrona con le unghie non è un mistero, visto che è del tutto evidente che se dovesse saltare il banco il suo ruolo nel M5s risulterebbe fortemente ridimensionato.
Di Maio, però, inizia a temere che la navigazione si stia facendo troppo difficile. Ed è preoccupato da un Salvini che, confida in privato, forse sta già «facendo le prove generali» dell'incidente che potrebbe causare la crisi. Ricostruzione, questa, assolutamente plausibile, a meno che non si voglia dar retta al viceministro dell'Economia Laura Castelli che dopo aver dato il parere contrario del governo all'emendamento del Pd è poi andata sostenendo con i suoi colleghi che lo strappo della Lega era «concordato». Che, insomma, sarebbe stata tutta una sceneggiata per salvare sia Radio Radicale che la faccia. Uno scenario che non pare troppo credibile, anche perché che ieri il M5s non ne sia uscito con le ossa rotte è questione assolutamente opinabile.
Non è un caso che Di Maio viva con una certa apprensione queste giornate, in attesa che a metà luglio finalmente si chiuda la finestra elettorale di settembre-ottobre, termine ultimo - secondo il Colle - per pensare di far partire una nuova legislatura e contemporaneamente portare a casa la legge di Bilancio prima del 31 dicembre. Insomma, una crisi in pieno agosto o subito dopo l'estate, molto difficilmente porterebbe al voto, eventualità che Di Maio vede come il fumo negli occhi. Ecco perché da dopo le Europee ha deciso di schiacciarsi su Salvini e concedergli qualunque cosa. Sperando di reggere ancora quattro o cinque settimane, così da disinnescare le elezioni anticipate e poi potersi finalmente riprendere i suoi spazi.
Per la stessa ragione, raccontano a Palazzo Chigi, pare che il vicepremier grillino guardi con una certa preoccupazione la bufera che sta investendo il Csm. Non perché sia particolarmente attendo alle vicende dei magistrati, ma per il timore che il caso possa in qualche modo «indebolire» il Colle e, magari, spingere Salvini a pigiare sull'acceleratore della crisi.
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