Per capire come sia cambiata l'Italia basta tornare al 24 marzo 2016. Quel giorno il Viminale guidato da Angelino Alfano, registrava 14mila 493 sbarchi di migranti dall'inizio dell'anno. Un altro mondo rispetto a quello descritto nelle statistiche del ministero dell'Interno di Matteo Salvini che il 15 marzo, tre giorni fa, segnalavano 335 arrivi.
Salvini ha, dunque, ottime ragioni per cantar vittoria e ribadire che quei numeri dimostrano il passaggio «dalle parole ai fatti». Sul fronte delle espulsioni il successo è, però, meno evidente. I 1354 rimpatri di irregolari eseguiti al 15 marzo non rappresentano, pur superando di quattro volte gli arrivi, una grande svolta. Basta far di conto per scoprire che la media delle 18 espulsioni al giorno resta in linea con quelle registrate nel 2017 e 2018. E, soprattutto, resta insufficiente a smaltire il pregresso di oltre 600mila irregolari arrivati in Italia tra il 2014 e la fine del 2018.
Ma allora cosa non funziona? O meglio perché Matteo Salvini è riuscito ad onorare, in meno di nove mesi, la promessa di fermare gli sbarchi, ma non riesce a rispettare l'impegno di «riempire gli aerei e riportare gli immigrati a casa loro». Per capirlo basta analizzare la marcia salviniana verso l'azzeramento degli sbarchi. Agevolato dal predecessore Marco Minniti che aveva ridimensionato le partenze dalla Libia grazie alla ripristinata Guardia Costiera di Tripoli e all'attività delle milizie pagate dal governo libico con nostri fondi Salvini ha dovuto preoccuparsi soltanto del versante italiano. La sua prima e fondamentale mossa, mai attuata da Minniti per l'assoluta contrarietà del Pd, è stata la chiusura dei porti alle navi di migranti e il loro dirottamento verso le coste di Malta, Francia e Spagna. La seconda è stata la lotta senza quartiere alle navi delle Ong. La terza, non meno importante, è stata la drastica modifica delle regole d'ingaggio della Guardia Costiera, indotta a sospendere ogni collaborazione con le Ong e a mettere fine ai soccorsi a ridosso delle acque libiche. La chiusura dei porti e il dirottamento dei carichi di migranti verso Malta, Francia e Spagna, essenziali per vincere la battaglia degli sbarchi, sono stati però assolutamente controproducenti sul fronte delle espulsioni.
L'aver messo a nudo, con toni troppo sopra le righe, il cinismo di un'Europa recalcitrante a suddividersi poche decine di migranti ci è costato non solo l'avversione di Parigi ma anche quella di altri «partner» continentali. E il tentativo di stringere un'alleanza, rivelatasi assai poco «reciproca», con Austria e paesi di Visegrad si è tradotto in ulteriore isolamento ed ulteriore diffidenza. Questo ci ha precluso quel sostegno dell'Unione europea indispensabile per imporre ai paesi d'origine africani dei nuovi accordi di rimpatrio. Accordi impossibili da ottenere senza metter sul tavolo la pesante leva degli aiuti economici di Bruxelles o, per esser più espliciti, il ricatto politico riguardante la concessione di ingenti finanziamenti europei.
In assenza di questi accordi Matteo Salvini si è ritrovato a poter sfruttare, al pari dei propri predecessori, soltanto le quattro intese con Marocco, Nigeria, Egitto e Tunisia firmate, in alcuni casi, più di dieci anni fa.
E così in mancanza di accordi con Senegal, Sudan, Algeria, Gambia e con altri paesi africani da cui sono arrivati, negli anni, decine di migliaia di irregolari il risultato non cambia. Diciotto al giorno ne rispedivamo a casa con Alfano e Minniti, 18 ne rimandiamo indietro con Matteo Salvini.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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