Cronache

Sconfessata la procura. La trattativa Stato-mafia è soltanto una bufala

Nelle motivazioni del verdetto d'appello i giudici riscrivono la stagione delle stragi

Sconfessata la procura. La trattativa Stato-mafia è soltanto una bufala

Non è solo la pietra tombale su una sentenza sbagliata, è la fine certificata di una intera stagione di giustizia dal sapore politico: che aveva immolato servitori fedeli dello Stato sull'altare di un teorema, la collusione tra istituzioni e mafia, privo di qualunque base concreta. Le motivazioni depositate ieri della sentenza d'appello che ha assolto i generali Mario Mori e Antonio Subranni e l'ex senatore Marcello Dell'Utri - condannati in primo grado a pene pesanti per «attentato agli organi dello Stato» - azzera l'intera stagione di inchieste che la Procura di Palermo, sotto la guida di teste d'ariete come i pm Nino Di Matteo e Antonino Ingroia - ha condotto per dimostrare che dietro le strategie stragiste di Cosa Nostra esisteva un patto occulto con poteri deviati dello Stato, a partire dal Ros dei carabinieri. Corollario: anche la strage che costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta era originata da questa trattativa. Tutto falso, dice la sentenza di ieri. La spiegazione del massacro di via D'Amelio va cercata altrove: piuttosto nel dossier su mafia e appalti, insabbiato senza spiegazioni dalla Procura di Palermo in quegli stessi giorni.

È servito un anno, ai giudici della Corte d'assise di Palermo, per stendere le motivazioni della sentenza emessa il 23 settembre 2021. Una attesa lunga, ma ne è valsa la pena. Perché per la prima volta viene contestualizzato, calandolo nella realtà drammatica del 1992 e del 1992, l'attivismo dei carabinieri del Ros, ovvero di Mori e di Subranni. Quando cercarono di agganciare Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, «nulla osta a riconoscere che i carabinieri abbiano agito avendo effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all'escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento dell'ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane».

Di fronte allo strapotere di Cosa Nostra, che seminava morte in Sicilia e sul continente, i carabinieri agirono seguendo quella che allora si presentava come l'unica strategia possibile (e che alla fine si rivelò vincente): disarticolare l'avversario, sfruttarne le contraddizioni interne. «Il disegno era quello di insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente all'interno di Cosa Nostra e fare leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l'apparente monolitismo dell'egemonia corleonese». Così accadde. Totò Riina fu catturato. Pochi mesi dopo le stragi cessarono. La sentenza di ieri ipotizza che tra le contropartite possa esservi stato un prolungamento della latitanza dell'altro padrino, Bernardo Provenzano, quale garante dell'ala «morbida». Ma nel 2006 anche «Binnu» finì nella rete.

Del teorema facevano parte, insieme ai carabinieri, anche il ruolo delle massime istituzioni dello Stato. E su questo versante le motivazioni di ieri sono ancora più severe nei confronti dei giudici di primo grado: prive di qualunque prova le affermazioni su un ricatto recapitato nel 1994 a Silvio Berlusconi. Mentre meno indulgente la Corte d'appello si mostra verso l'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e l'ex ministro Giovanni Conso. Per i primi giudici, a cedere era stato Francesco Di Maggio, vicecapo delle carceri, longa manus di Mori. Invece dopo aver scavato in profondità nei meccanismi del potere centrale dello Stato, analizzando gli appunti di Scalfaro, di Conso, del premier Carlo Azeglio Ciampi, i giudici dicono che fu Scalfaro, alla fine, a decidere di allentare le maglie del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi, principale oggetto della presunta trattativa: «l'obiettivo del Quirinale era proprio quello di favorire un cambio di passo, nel senso di un ammorbidimento della politica carceraria». Fu così che alcuni mafiosi di secondo piano si videro revocare il carcere duro.

Ma l'operazione, dice la sentenza, passò su livelli ben più alti di quelli di Mori.

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