Un altro, al suo posto, avrebbe incassato l'assoluzione, tirato un sospiro di sollievo e ricominciato a tirare la lima, come si dice da queste parti. Ma Ermanno Manfrini, evidentemente, è fatto in un altro modo.
Sessantanove anni, gli ultimi quaranta spesi a costruire impianti per verniciatura, gli ultimi venti a combattere con la concorrenza di tutto il mondo, «con i turchi, con gli indiani, che dietro hanno uno Stato che li aiuta». Lui, invece, dal suo Stato è stato trascinato sul banco degli imputati. E quando lo hanno assolto («il giudice ci ha messo quindici secondi, ha fatto il giro della scrivania e ha letto la sentenza; si vedeva che era arrabbiato anche lui per avere dovuto fare un processo del genere»), il signor Manfrini ha preso carta e penna e ha scritto al suo pubblico ministero quello che pensa di lui. Lo sfogo non è bastato a fargli smaltire tutta la rabbia che ha accumulato nel serbatoio: «Quando grazie ai magistrati - dice - il paese sarà andato a ramengo, io di fame non morirò di sicuro, perché un posto all'estero me lo trovo perché so lavorare. Ma a loro senza le mie tasse chi li mantiene? Non se lo chiedono?».
La ditta Acf sta a Cologno Monzese, cintura industriale di Milano. Un giorno di agosto del 2011, nel pieno delle vacanze estive, Magrini è lì con i suoi operai a caricare su un camion un impianto che deve partire per la Tunisia. Come sempre in questi casi ha chiamato la ditta che si occupa da sempre per lui del lavoro di carico e scarico, «gente che conosco da una vita». Una fune cede, parte con la violenza di una frusta, colpisce in faccia un operaio della ditta esterna. «Una brutta botta, lui sanguina, io lo soccorro, lo faccio portare in ospedale». Arrivato in ospedale, però, l'uomo taglia la corda e sparisce nel nulla, perché è clandestino e ha paura di essere espulso. «E io cosa ne sapevo? Non posso mica chiedere il permesso di soggiorno a tutti quelli che le ditte mandano qui a fare i lavori, ai peruviani dei corrieri, a quelli che mi cambiano il caffè alle macchinette».
Sembrava tutto finito lì. Invece otto mesi dopo a Magrini arriva l'avviso di garanzia. Articolo 22 della legge del 1998 che punisce con il carcere fino a tre anni chi impiega lavoratori clandestini. «Volevano a tutti i costi che mi nominassi un avvocato, ma a me un avvocato non serviva perché non avevo fatto niente di male. Alla fine mi hanno dato un difensore d'ufficio e me lo sono anche dovuto pagare, e sono soldi che nessuno mi darà mai. Milleottocento euro. Ma si rendono conto che io con milleottocento euro ci pago un operaio per un mese?».
La procura chiede il rinvio a giudizio, «mentre bastava che venissero qui mezz'ora, a vedere come lavoriamo, e avrebbero capito che non potevo aver commesso alcun reato. Anche perché il principale della ditta che lavorava per me ha messo per iscritto che quell'operaio lo aveva portato lui e io non ne sapevo niente». Ma la Procura va dritta filata. Al processo, il pubblico ministero chiede per Magrini quattro mesi di carcere. Il giudice ci mette un attimo ad assolvere l'imputato con formula piena, e legge in diretta anche le motivazioni: «Nessun rapporto risulta esservi tra l'imputato e il clandestino». Fine.
Ma Magrini non festeggia. Anzi, si arrabbia ancora di più. «Io avrei preferito che mi condannassero.
Almeno voleva dire che qualcosa di male avevo fatto. Invece adesso ho la prova che mi hanno processato per niente». Così ha scritto al suo pm. É sicuro che fosse il caso? E se, mettiamo, il pubblico ministero si offende?«Non me ne frega un cavolo».
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