Il campionato di calcio è fermo. Giocano a pallone quattro scriteriati che se ne infischiano dei decreti. C'è bisogno di football, l'assenza diventa sempre più presenza, si rincorrono immagini di partite che furono, Italia-Germania quattro a tre e altre sfide più o meno leggendarie, la crisi di astinenza viene combattuta con dosi massicce di filmati. Non si strilla più contro la curva opposta, si inneggia sui balconi a Mameli o a Modugno.
Bergamo e Brescia vivono giorni di strazio e di morte, nessun umano ha voglia di parlare di derby, di vendette e di sfide, la rivalità millenaria è messa in soffitta, insieme con Federico Barbarossa e la Lega Lombarda. Il silenzio accompagna la sofferenza e cancella l'odio, il virus ha un effetto benefico nei rapporti, di solito acidi, c'è fratellanza, sostantivo che non fa parte di nessun dizionario calcistico. Si sta sulla stessa barricata e non più oltre, ultras. La forzata pausa agonistica deve pur servire a rimettere le cose al loro posto, un momento per riflettere, ricordando le botte e lo stupido sangue buttato per un rigore o un autogol. Fu un pallone a riportare, per una sola notte, quella di Natale del 1914, la tregua tra le truppe francobritanniche e quelle tedesche, abbandonati i fucili, riposte le pistole, una luce di speranza nel giorno della natività.
Oggi ci aspettiamo la resurrezione, recitiamo preghiere, cantiamo melodie, intoniamo inni, l'esorcismo per fuggire alla depressione, mentre gli abitanti del calcio discutono, litigano anche, sulla data in cui riprendere i giochi. Non sono i tifosi a chiederlo, sono i dirigenti a volerlo, per evidenti motivi di cassa. Ma la tregua di queste settimane dovrebbe restituire la giusta dimensione al popolo degli stadi, Brescia, Bergamo ma anche Verona e poi Napoli, Roma, Torino, Milano, Genova e Firenze, Catania e Palermo, senza stringersi a coorte, è arrivato forse il punto e a capo.
La conta quotidiana dei deceduti fa deragliare qualunque spunto di rivalità, azzerati i femminicidi, ridotti ai minimi gli atti violenti, non ci resta che attendere il giorno della ripresa, il fischio di inizio di una nuova partita, non soltanto sul campo ma attorno, tra gente divisa da una bandiera ma per una sfida non più aspra e letale come prima. Forse è un'illusione, forse è una speranza infantile ma forse è la grande occasione per dimostrare che lo sport, il gioco del pallone prima di tutto, può essere vissuto, appunto vivendo e non più urlando «devi morire».
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