A sentire e leggere quello che dice oggi Piercamillo Davigo, uno dei magistrati che scatenarono l'inchiesta «Mani Pulite» contro Tangentopoli 30 anni fa, la storia si dovrebbe ripetere ripete ciclicamente e quindi, lui prevede, fra poco si ripeterà anche con i soldi del Pnrr perché a suo parere ci sarà un magna-magna colossale. Ecco un caso in cui un vecchio magistrato sogna di tornare Ghostbuster a caccia di fantasmi con i vecchi compagni del Pool che sfidò il Parlamento. Magistrati come profeti? È normale? Tre decenni dopo l'Inquisizione di Mani Pulite il bilancio è semplice e terribile; si sono rotti gli argini che avrebbero dovuto contenere le esuberanze di alcuni magistrati e i danni seguitano a produrre altri danni.
Proviamo a mettere insieme il contesto. Partirò da un mio ricordo, anzi una testimonianza: nel 1980, in anticipo di 12 anni per puro caso inciampai in Tangentopoli provocando grande clamore, del tutto inutile. E quando poi nel 1992 il fattaccio venne definitivamente a galla, tutti avevano nel frattempo perso la memoria di quel che era già emerso e ficcato di nuovo sotto la sabbia. Nel 1980 fui mandato dunque da Eugenio Scalfari a intervistare il ministro Franco Evangelisti, braccio destro di Giulio Andreotti in quotidiana comunicazione con il suo omologo del Partito comunista Antonino Tatò.
Lo dovevo intervistare per una faccenda di assegni irregolari pubblicata sul settimanale L'Espresso. Evangelisti mi accolse in modo festoso e appena lo estrassi, mi chiese di rimettere in tasca il bloc-notes perché, disse, prima, mi doveva spiegare il retroscena. E lo fece con queste parole: «Qua abbiamo rubato tutti, dal primo all'ultimo. Tutti! I comunisti prendono soldi dai russi e noi, che non siamo più scemi di loro, i soldi li prendiamo dove è possibile e li chiediamo agli industriali e agli enti pubblici e ai Paesi amici».
Mi fece l'esempio di un industriale che mensilmente faceva il giro dei partiti offrendo assegni. Quando arrivava il suo turno, l'industriale gli diceva: «A Fra' che te serve?». Bastava specificare la somma. Poi pretese di dettarmi che cosa scrivere pronunciando parole innocue e generiche. Tornato in redazione, io invece scrissi invece tutto ciò che mi aveva detto e feci senza volerlo uno scoop eccezionale. Grande clamore, ma tutti facevano finta di non aver capito che cosa Evangelisti avesse confessato nel 1980: che tutti i partiti senza eccezione estorcevano denaro in barba alla legge.
Il clamore fu dirottato sul linguaggio volgare del ministro, una questione di stile. Non un solo magistrato aprì un fascicolo ma Evangelisti fu costretto a dimettersi.
Anche i magistrati di allora facevano parte del Sacro Graal del silenzio? So soltanto che tutto ciò che aveva confessato Evangelisti coincise con quanto dirà il segretario del Partito socialista Bettino Craxi alla Camera il 3 luglio del 1992, quando chiamò come correi degli stessi crimini di cui era stato accusato (e per cui fu costretto a rifugiarsi fino alla morte nella sua casa in Tunisia) tutti i capi di tutti i partiti, che avevano fatto ricorso a finanziamenti illeciti per mantenere in piedi le loro baracche della politica.
Ma fra la surreale confessione di Evangelisti e Tangentopoli qualcosa di nuovo era stato introdotto come elemento morale: dopo la caduta dell'impero sovietico e la fine dei foraggiamenti al Pci, era stato introdotto con grande e ben diretto sforzo comunicativo, il principio etico secondo cui «rubare per il partito, è cosa buona; mentre rubare per le proprie tasche è criminale».
Era un criterio capovolto essendo vero il contrario: chi pompa denaro illecito in un partito, manomette la raccolta del consenso e dunque la base del sistema democratico perché i soldi portano voti grazie ad un reato, mentre paradossalmente chi intascava soldi destinati al partito commetteva un reato ma non un attentato alle istituzioni.
La stampa in modo pressoché unanime accolse quella ipocrita gerarchia capovolta di valori perché lo scopo finale dell'operazione era quello di far fuori i partiti che avevano governato dal 1948, lasciando indenne il solo Partito comunista velocemente ribattezzato Partito democratico della sinistra affinché conquistasse il potere senza concorrenti e con il pieno consenso degli americani (ma non solo) che da tempo sognavano di togliersi dai piedi una classe dirigente che aveva sfruttato la posizione di geografica di cerniera fra Est e Ovest dell'Italia per fare il porco comodo di alcuni politici e di molti poteri economici.
Questo era lo scenario in cui esplose uno scandalo che diventò un uragano, qualcosa di simile a una rivoluzione alimentando nel Paese un limaccioso sentimento di vendetta nei confronti dei politici montando la cupa idea che fossero soltanto una banda di ladri. Come giornalista della Stampa fui incaricato di seguire il procuratore più visibile del Pool: Antonio Di Pietro con i suoi buffi errori di italiano, il suo passato agreste, l'emigrazione in Germania. Intervistando più tardi la famiglia Setti Carraro dopo l'uccisione a Palermo del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa con la giovane moglie Emanuela Setti Carraro, seppi da loro che Di Pietro faceva parte del gruppo del capo dell'antiterrorismo.
Il giorno in cui Gabriele Cagliari presidente dell'Eni arrestato dal Pool fu trovato soffocato in carcere con un sacchetto di plastica sul volto, incontrai Bettino Craxi seduto in un piccolo ristorante di via dell'Anima poco prima che fuggisse in Tunisia. Mi chiamò pallido e agitato, dicendomi: «Stai attento a quello là. Stai attento a tutti loro. È gente che ammazza». Di Cagliari dissero che era suicidato. Provate un po' voi a suicidarvi (facendovi assistere) ficcando la testa in un sacchetto.
Lo show arrivò alla fine. Le sentenze furono irrisorie, le morti assurde. Ma la democrazia della prima Repubblica cadde quando il Pool di Mani pulite sfidò, davanti alle telecamere, il Parlamento. E il Parlamento si arrese.
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