Coronavirus

Si arena in Senato lo spirito di unità che il premier ha sempre ostacolato

L'equivoco finirà oggi. Quando, poco dopo l'ora di pranzo, il Senato concluderà il voto di fiducia sul decreto Cura Italia

Si arena in Senato lo spirito di unità che il premier ha sempre ostacolato

L'equivoco finirà oggi. Quando, poco dopo l'ora di pranzo, il Senato concluderà il voto di fiducia sul decreto Cura Italia. Un provvedimento su cui il governo ha messo la fiducia, escludendo di fatto qualsiasi ipotesi di convergenza delle opposizioni. Una scelta per molti versi scontata e che, finalmente, fa un po' d'ordine dopo che per quasi un mese si è andati avanti con lo stucchevole balletto di un presunto spirito di unità nazionale che avrebbe guidato, quasi fosse un rabdomante, maggioranza e opposizioni in nome del supremo interesse del Paese. Della collaborazione più volte invocata da Sergio Mattarella (nel tondo), infatti, non c'è traccia. E non ce n'è mai stata, al netto dei due incontri molto formali e fumosi che Giuseppe Conte è stato costretto a fare con Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani per salvare quantomeno le apparenze. Il premier, magari complice un rapporto umano e personale ormai compromesso con il leader della Lega, non ha infatti mai davvero voluto ascoltare le minoranze. A cui ha chiesto di rinunciare agli emendamenti, nonostante quelli presentati da un partito di maggioranza come Italia viva fossero di più di quelli di Lega o Fratelli d'Italia o Forza Italia.

Una scelta, quella di Conte, che rischia di avere conseguenze sul futuro. Perché è del tutto evidente che se questo è il clima che si respira oggi, domani non potrà che andare peggio. Proprio quando il Paese dovrà provare a ripartire ed avrebbe bisogno del maggior sostegno possibile per cercare di far fronte alla crisi economica che seguirà l'avvio della cosiddetta «fase 2». Non è un caso che già ieri, mentre da Palazzo Chigi filtrava una vaga disponibilità di Conte ad accettare un accordo sul Mes senza condizionalità, Salvini e Meloni hanno iniziato a sparare bordate. «Il Mes è una rapina», ha affondato il leader della Lega. «E' lo strumento con cui la Germania vuole metterci il cappio al collo», gli ha fatto eco Meloni. Piccole tracce del clima di guerra permanente che si rischia di respirare nei prossimi mesi.

Ed è qui che è poco comprensibile l'approccio di Conte. Che avrebbe dovuto fare l'impossibile per tenere dentro l'opposizione. Se non per l'interesse nazionale, quantomeno per il suo. Visto che è del tutto evidente che uno scenario simile non fa che favorire quel cambio della guardia a Palazzo Chigi a cui in molti iniziano a guardare. Un approccio «nazionale» all'emergenza, infatti, è anche nell'interesse del Pd, partito non numericamente ma politicamente decisivo per i destini dell'esecutivo (visto che il M5s è ormai avvitato su se stesso, in un crollo verticale di consensi che non si ferma). Non è un caso che lo stesso segretario dem Nicola Zingaretti non faccia mistero in privato di non comprendere molto l'approccio da «uomo solo al comando» di Conte. Che non solo non riesce a trovare un dialogo con l'opposizione, ma è anche ai ferri corti con pezzi importanti della sua maggioranza e con soggetti istituzionali che hanno e avranno un ruolo chiave nella lotta al Covid-19 e negli imminenti provvedimenti anticrisi.

Se il braccio di ferro tra Palazzo Chigi e il governatore leghista della Lombardia Attilio Fontana può infatti essere letto con le solite categorie della politica e quindi tradotto in un banale scontro tra maggioranza e opposizione, è difficile usare lo stesso metro per la rottura avvenuta ieri in Conferenza unificata tra governo e amministratori locali. Così profonda che il presidente dell'Anci Antonio De Caro, sindaco di Bari del Pd, ha lasciato per protesta la riunione insieme ai vertici dell'Upi. Comuni e Province italiane, insomma, puntano il dito contro Palazzo Chigi. E fanno sapere che «se il governo non farà fronte alla richiesta di cinque miliardi per gli enti locali già nel prossimo decreto», non saranno in grado di «garantire i servizi essenziali».

Un affondo durissimo. Che arriva dallo stesso presidente dell'Anci che solo una settimana fa aveva partecipato alla conferenza stampa in cui Conte aveva trionfalmente annunciato un'iniezione di liquidità di 4,3 miliardi per i comuni (in verità nient'altro che un'anticipazione già dovuta).

Il tutto, con buona pace dell'unità nazionale.

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