La sinistra cambia la Carta senza avere la maggioranza

Alcuni articoli passano con la miseria di 143 voti al Senato, sotto la soglia del 50%. E osavano dire: la Costituzione è intoccabile

La sinistra cambia la Carta senza avere la maggioranza

Roma - Su e giù, 165, 143, 144, di nuovo 180. Il grafico della febbre della riforma Boschi è come un ago impazzito, una pallina di ping pong che rimbalza sempre vicina alla riga bianca, sopra e sotto della quota 161, cioè alla linea di galleggiamento della maggioranza. Al Senato in una mattinata da brividi si vota a raffica e il governo finisce più volte virtualmente in minoranza. Sull'articolo 12 della legge scende addirittura a 143 ma non succede niente perché comunque i no agli emendamenti sono sempre più dei sì. Palazzo Chigi regge, la riforma va avanti, però si apre una questione politica non da poco: si può cambiare la Costituzione con la miseria di centoquaranta voti?

Se lo chiede ad esempio Maurizio Gasparri. Proprio la sinistra, dice, che l'ha sempre considerata un testo sacro, un Moloch intoccabile, ora va avanti con margini risicatissime: «È una vergogna, non si riscrive così la Costituzione. Siamo all'esproprio della istituzioni». Per tanti anni, ricorda, i vari leader dell'Ulivo e del Pd, da Prodi a D'Alema, hanno definito la Carta intangibile. Persino Giorgio Napolitano, che di questa riforma è stato uno dei principali sponsor, nel 2010 invitava a «non fare colpi di mano o di maggioranza». Ora il quadro è diverso, le opposizioni protestano, Lega e Cinque Stelle ritirano gli emendamenti, Forza Italia scrive a Sergio Mattarella. «Si tratta - racconta il capogruppo Paolo Romani - di una relazione sull'andamento dei lavori al Senato».

Giornata tesa. A Palazzo Madama arriva in aula la parte centrale della riforma e il risultato non è affatto scontato. Si inizia a scrutinio palese e la maggioranza si ferma a quota 145, risale fino a 161, per poi precipitare di nuovo. Infatti, come era già successo martedì, sono i voti segreti a mettere in difficoltà il governo. Il primo, su un emendamento all'articolo 12 presentato da M5S, viene respinto con 143 no, 130 sì e 4 astenuti: una ventina di senatori del Pd vota in dissenso con le indicazioni del gruppo, altri quattro-cinque escono dall'aula: risultato, i voti di scarto sono 17, perché al Senato l'astensione vale come un no.

Sul secondo voto segreto, un altro emendamento all'articolo 12, i numeri sono questi: 144 no, 131 sì e 4 astenuti. Poi Lega e Cinque Stelle ritirano per protesta altri emendamenti e il governo può tonare a respirare. Riannaspa sull'articolo 17, quando quattordici senatori dem annunciano di appoggiare le modifiche proposte da Sel sullo stato di guerra. Però Forza Italia stavolta fa «una scelta di merito» e si schiera con il governo.

Maggioranza esile, quasi una minoranza. Ma Luigi Zanda, capogruppo del Pd, è contento lo stesso: «Siamo solidi, c'è sempre uno spread di 60-70 voti». Passato il pericolo, non finisce la polemica. «Nella lettera inviata al presidente della Repubblica - spiega Romani - ci siamo lamentati del fatto che ci sia stata totale indisponibilità ad aprire un tavolo sulle regole costituzionali e ci lamentiamo anche del fatto che sono state fatte delle forzature sul regolamento per comprimere il dibattito». Anche i grillini scrivono al capo dello Stato e domandano udienza.

«Alla luce della gravissima situazione istituzionale determinata dal governo e dalla di maggioranza - si legge - le chiediamo con urgenza un incontro leale e sincero sulla salvaguardia della dignità delle istituzioni della Repubblica».

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