Una delle lezioni di vita politica che più gli rimasero impresse risale al febbraio del 1984: funerali di Yuri Andropov, il segretario Berlinguer che sceglie lui per farsi accompagnare a Mosca e che, nel bel mezzo della cerimonia, quando compare la corona di fiori del Pci, non riesce proprio a simulare un minimo di commozione. «Vedi, questa è la prima legge generale del socialismo reale: i dirigenti mentono, sempre, anche quando non sarebbe necessario. La seconda è che l'agricoltura non funziona. Mai, in nessuno di questi paesi. La terza, facci caso - mi disse serissimo - è che le caramelle hanno sempre la carta attaccata». Così, facendo finta di impicciarsi con una caramella sovietica appiccicosa, Berlinguer nascose un certo imbarazzo.
Lo racconta Massimo D'Alema, in un libro del 2004 che evoca quel viaggio, l'ultimo, assieme al suo segretario - Berlinguer morì di lì a poco, a giugno. Non sembra perciò lecito, oggi, attribuire «metamorfosi» di alcun genere all'ormai sessantottenne stratega che, assieme a Bersani e Pisapia, muove contro il Nazareno per abbattere l'Usurpatore. Narrano le cronache che l'ultima versione dalemiana sia quella d'una specie di bulletto capace d'affrontare a muso duro il militante che lo accusava scioccamente: «Tu hai consegnato Ocalan alla Turchia!». E lui, lo raccontava l'altra sera dal palco di Sinistra italiana a Barletta, gli ha (avrebbe) reso pan per focaccia. «Mi son tolto gli occhiali, mi sono avvicinato e gli ho detto ora ti spacco la faccia». Applausi.
Vera o esagerata la narrazione, è frutto di un «nuovo corso» del dirigente D'Alema. Affatto personale e tutto politico. «Radicalizziamoci»: così ha catechizzato la ventina di presenti all'ultimo summit della scorsa settimana, sicuro che per battere Renzi una volta per sempre sia necessario «non avere nemici a sinistra». Dentro tutti, massimo dell'inclusione possibile, almeno fino alla sparuta Rifondazione comunista di Paolo Ferrero.
Ma D'Alema è lo stesso di sempre: lo «Spezzaferro» stuzzicato da Pansa come giovanotto dai denti capaci di aprire bottiglie, quello che il 31 dicembre del Sessantotto, per intenderci, ha (avrebbe) lanciato una molotov davanti alla Bussola di Viareggio «contro gli sprechi dei padroni». Lo ha raccontato lui stesso, e anche qui potrebbe esserci un bel po' d'esagerazione. Accertati, invece, sono i due processi subiti all'epoca in cui frequentava con poco profitto la Normale di Pisa ed era giovane speranza della Fgci assieme a Fabio Mussi: uno per un sit-in sui binari, un altro per aver provocato disordini durante la visita del vicepresidente Usa. Nell'autonarrazione del D'Alema che-fa-la-faccia-feroce ci starebbe addirittura una svastica disegnata con gessetto su un carro armato sovietico a Praga, nel fatidico 21 agosto '68. Chissà. Se mai è esistito quel focoso ragazzotto - è possibile - , la sua metamorfosi dirigenziale lo ha portato a essere quello che conosciamo da una vita: freddo, sarcastico, rude, spesso arrogante. Il premier che voleva far causa al Corsera di de Bortoli perché un suo eccezionale cronista, Felice Saulino, s'era presentato a sorpresa sulla banchina di Icarus I a Riva di Traiano; quello che trapela rabbia repressa in tv; colui che umiliò il Cofferati dei tre milioni in piazza.
Ogni uomo cela un mistero sulle cui tracce solo le donne possono metterci.
«Quello che mi colpì di lui - confessò la moglie Linda Giuva in un libro-intervista nel 2007- fu il contrasto tra come appariva, cioé una persona molto fredda, e alcune cose che si riuscivano a percepire al di là di questo atteggiamento distaccato». Dunque è vero: D'Alema torna a dire (a fare?) cose di sinistra, se c'è da servire la Causa. È pronto financo a menare le mani. Però basta non parlargli in fiorentino e sa come tornare amabile (detestabile).- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.